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A colloquio con la sinologa e giornalista Giada Messetti, autrice del volume "Nella testa del Dragone".
Un Paese immenso con tante contraddizioni al suo interno, una potenza politica ed economica che fa paura e suscita sospetti, una cultura millenaria ricca di fascino. La sinologa e giornalista Giada Messetti racconta la Cina di oggi nel libro “Nella testa del Dragone” (Mondadori). Un saggio rivolto a chi, semplicemente, vuole saperne di più. Un libro utile perché la comunità cinese è forte anche in Italia ed è meglio sapere con chi abbiamo a che fare. Anche per smontare qualche pregiudizio e stereotipo di troppo.
Cominciamo proprio dal titolo: cosa c’è nella testa del Dragone?
Nella testa del Dragone ci sono tantissime cose che, soprattutto in Italia, ignoriamo. Ho voluto scrivere questo libro, che è un saggio molto divulgativo, proprio per offrire una base di conoscenza sulla Cina di oggi. Di solito quando pensiamo a questo Paese pensiamo alla cosiddetta “fabbrica del mondo”, un’immagine che poteva essere valida 15 anni fa, ma non adesso. In questi anni la Cina è cambiata, ha corso tantissimo, è diventata la seconda potenza economica mondiale e aspira ad essere la prima. In queste pagine cerco di raccontare che Paese è diventato la Cina e quanto sia diverso dal nostro, con "diverso" che non ha una accezione né positiva né negativa.
Lei dice che esistono dieci, cento, mille Cine…
Noi parliamo di una Cina, ma in realtà la Cina è un continente, con al suo interno tante Cine diverse, sia per quanto riguarda lo sviluppo economico e sociale che più, banalmente, per una questione etnica: in Cina sono presenti 54 minoranze etniche, quindi ci sono anche forti differenze culturali. E’ un Paese enorme che si pone l’obiettivo di assottigliare le tante contraddizioni che lo animano, creando una classe media sempre più numerosa e forte. Teniamo sempre conto che la Cina è la vincitrice della globalizzazione, perché la globalizzazione le ha permesso di sollevare dalla soglia di povertà 800 milioni di persone. E intende proseguire su questa strada.
Torniamo alla “fabbrica del mondo”, perché è una definizione un po’ superata?
Intanto va detto che tendenzialmente siamo sempre stati noi occidentali ad andare là a produrre a costi bassi e a sfruttare la manodopera locale. Adesso in molti settori non c’è più tutto questo vantaggio e, infatti, le produzioni si stanno spostando più a sud, in Thailandia o in Vietnam ad esempio. I salari dei lavoratori stanno crescendo e la Cina inizia a non è essere più così conveniente. Io, a questo proposito, consiglio sempre la visione di un documentario intitolato “American factory”, che racconta la storia di una fabbrica statunitense comprata dai cinesi e mostra la diversa mentalità fra gli occidentali e loro. Quello che a noi può sembrare un sacrificio – non mi riferisco ovviamente al tema dei diritti negati -, per i cinesi può essere normale. E’ un fatto di cultura. I cinesi possono lavorare 10 ore al giorno e sentirlo come un dovere, non come una forma di sfruttamento.
Su quali settori punta la Cina di oggi?
Innanzitutto la tecnologia. La Cina mira a diventare la prima potenza tecnologica al mondo. La guerra dei dazi con gli Stati Uniti nasce dal fatto che, per alcuni versi, la Cina rappresenta ormai una minaccia al primato americano. La guerra con Huawei ne è un simbolo. Huawei vuole gli appalti del 5G in Europa e l’America, che finora ha avuto il monopolio delle reti, dell’installazione dei cavi sottomarini da cui passano i dati di Internet, si oppone in ogni modo. La realtà è che la Cina è sempre più tecnologicamente avanzata, è forte nella robotica, nell’intelligenza artificiale, nella collezione dei Big Data, e quindi fa paura. Sui Big Data, in particolare, che saranno il petrolio del futuro, ha un evidente vantaggio numerico, potendo contare su un bacino di un miliardo e mezzo di persone. In Occidente non siamo sempre consapevoli della forza tecnologica della Cina.
Rimane, però, un grosso problema di rispetto dei diritti umani…
Si, assolutamente. Per la Cina ci sono due cose fondamentali: l’unità del Paese e la sua stabilità e il Governo interviene, anche con la forza, dove pensa che siano messe in discussione. In queste settimane, ad esempio, è uscita la notizia delle sterilizzazioni forzate nello Xinjiang, una regione a maggioranza musulmana abitata dagli uiguri, che secondo Pechino vuole rendersi più autonoma dal centro. Da qui l’istituzione di alcuni campi di rieducazione che è stata denunciata da diversi organizzazione internazionali. Di fatto è in corso un tentativo per cancellare la cultura uigura, un po’ com’era già successo in Tibet. Anche nel caso dello Xinjiang sono stati fatti immigrare nella regione tantissimi cinesi Han, l'etnia maggioritaria in Cina, proprio per indebolire la tradizione musulmana. E’ indubbio che vi siano delle violazioni dei diritti umani ed è altrettanto indubbio che l’Occidente potrebbe farsi sentire di più.
La Cina potrà diventare un Paese democratico?
Io non sono ottimista perché ormai la Cina è molto forte. Anche la questione di Hong Kong è venuta fuori in questo momento perché la Cina sa che l’Occidente non può fare molto contro di lei. Infatti da questa parte del mondo non ci siamo proprio strappati i capelli per protestare. E’ anche vero che bisogna guardare la vicenda dall’ottica cinese: per Pechino il ritorno di Hong Kong alla madre patria era una cosa ovvia che, prima o poi, sarebbe dovuta succedere, perché Hong Kong era divenuta inglese a seguito dei cosiddetti “Trattati ineguali” che i cinesi hanno sempre vissuto come uno strappo ingiusto. La Cina oggi è forte e si riprende Hong Kong: l’Occidente avrebbe dovuto e potuto essere più incisivo qualche tempo fa, adesso temo sia tardi.
Ma la popolazione non aspirerebbero a vivere in una democrazia?
No, la Cina non ha ambizioni democratiche, non le ha neppure dal punto di vista storico, filosofico, culturale. La democrazia non è un concetto cinese. Il dibattito che c’è ora all’interno del Paese riguarda piuttosto quanto debba essere autoritario il Governo, quanto debba essere dialogante o decisionista verso la classe intellettuale. Io penso che i cinesi non apprezzino particolarmente la democrazia. L’elezione di Trump alla presidenza americana, ad esempio, è stata usata per dimostrare quanto possa essere fallimentare e fallace la democrazia. Ormai sono riusciti a “cinesizzare” tutto - il capitalismo, Internet - e per loro va bene così.
La comunità cinese è molto forte a Milano. Ma in Italia permane qualche diffidenza…
A Milano c’è sicuramente una comunità cinese molto integrata, anche con il tessuto economico. Via Paolo Sarpi, la strada principale del quartiere cinese della città, è cambiata ed è diventata bellissima, con ristoranti di cucina gourmet. Qui hanno capito che è meglio proporre ricette buone, tipiche, piuttosto che piatti con prodotti surgelati uguali dappertutto. Più in generale penso che si debba cercare di integrarsi al meglio. La tesi di fondo del libro è che, come italiani e cinesi, abbiamo due culture di partenza molto differenti, ma sarà sempre più fondamentale dialogare, conoscersi. Con la Cina avremo per forza a che fare e il muro contro muro non funziona. Dobbiamo reciprocamente provare ad accorciare le distanze.