.
L' 8 agosto del 1956, in una miniera belga, morirono 136 minatori italiani.
Otto agosto 1956: è una calda giornata d’estate. Camillo, Giovanni, Ernest, Lino, Dante, Salvatore, Marcel, Giuseppe, Eligio, Fernand, Antonio e tanti altri loro “colleghi” sono al lavoro nelle viscere della terra. Fanno i minatori nella miniera di carbone del Bois du Cazier, a Marcinelle, nei pressi di Charleroi, in Belgio. Un lavoro duro, pericoloso, ma bisogna pure mangiare, o no? La mattina dell’8 agosto 1956 è l’ultima volta che vedranno la luce del sole. Alle 8.10 un’esplosione nel pozzo numero 1 li intrappolerà a circa mille metri di profondità, senza speranze di fuga. Camillo, Giovanni, Ernest, Lino, Dante, Salvatore, Marcel, Giuseppe, Eligio, Fernand, Antonio e tanti loro “colleghi” moriranno asfissiati dal fumo scatenatosi dalle fiamme.
In tutto i soccorritori conteranno 262 vittime, 136 delle quali italiane. Ragazzi, uomini fatti, che avevano lasciato la penisola, chi da anni chi da pochi mesi, in virtù di un'intesa siglata dai governi italiano e belga il 23 giugno 1946, in base alla quale l’Italia si impegnava ad inviare in Belgio “braccia forti” da impiegare nelle miniere locali in cambio di un certo quantitativo del prezioso (allora) combustile, necessario per far ripartire il Paese dopo le devastazioni della seconda guerra mondiale. La tragedia di Marcinelle ebbe un impatto fortissimo sull’opinione pubblica (anche se negli anni a seguire finì nel dimenticatoio).
Le foto dell’epoca ritraggono i fumi dell’esplosione, i famigliari dei minatori in attesa di notizie fuori dai cancelli, il cordoglio del re del Belgio e delle autorità italiane, le facce stravolte dei soccorritori, le veglie di preghiera, le centinaia di bare allineate una di fianco all’altra, le folle che seguirono i funerali...
Per lungo tempo ci si interrogò sulle cause dell’incidente: alla fine la colpa venne addossata a un operaio (italiano) che, per un’incomprensione o per disattenzione, manovrando i vagoncini sull’ascensore tranciò un cavo elettrico, che a contatto con una condotta dell’olio provocò l’incendio poi rivelatosi fatale. Vi fu un’inchiesta, che si concluse con la sola condanna (sei mesi con la condizionale) dell’ingegnere capo dell’impianto. In realtà, a pesare moltissimo furono soprattutto le pessime condizioni di sicurezza della miniera (ancora tutta in legno) e di lavoro degli uomini, costretti a stare al buio, nelle profondità della terra, sei giorni a settimana per più di otto ore al giorno, spesso in cunicoli roventi alti meno di 50 centimetri (le maschere di ossigeno furono introdotte solo dopo la tragedia). Li chiamavano “musi neri” perché quando risalivano in superficie, alla fine del turno, erano completamente ricoperti dalla polvere di carbone, che poi finiva per intasare i polmoni, provocando la micidiale silicosi (oggi si direbbe “malattia professionale”).
Il sito di Marcinelle, opportunamente restaurato e trasformato in museo, ha costituito la tappa principale di un campo-scuola organizzato qualche tempo fa dal Coordinamento Giovani della Cisl di Milano. Per saperne di più è da leggere il bel libro del giornalista Paolo Di Stefano (“La catastròfa”, Sellerio, 13 euro), che ripercorre la vicenda direttamente con la viva voce dei superstiti e dei famigliari delle vittime e tratteggia uno spaccato dell’emigrazione italiana di quegli anni. Nel complesso tra il 1946 e il 1957 giunsero in Belgio circa 140mila uomini, 17mila donne e 29mila bambini. Gente povera, che cercava solo un lavoro, un futuro migliore. E che in molti casi pagò i propri sogni al prezzo della vita.