di Danilo Galvagni
Non solo la crisi, anche la globalizzazione e altri fattori a carattere nazionale e generale, hanno cambiato il mondo del lavoro così come si era sviluppato per oltre un secolo. Se fino a qualche hanno fa il ‘posto’ era identificato con il lavoro dipendente, da tempo, non è più così.
Al tramonto delle grandi fabbriche non ha corrisposto un terziario, più o meno avanzato, che ha assorbito l’occupazione industriale in eccesso. Non è successo come nel secolo scorso con il passaggio di forza lavoro dalle campagne alle fabbriche della città. Sostanzialmente da un padrone all’altro. In questi anni il lavoro è venuto meno (superfluo persino ricordare le statistiche sulla disoccupazione). Quando c’è, si tratta di un lavoro che, come dicono gli economisti, si è parcellizzato: tante piccole aziende (spesso individuali) dove è difficile distinguere il dipendente dal principale. Questa trasformazione profonda pone problemi a quelle che, un po’ in sindacalese, chiamiamo rappresentanze. Non solo quelle dei lavoratori, che ci competono direttamente, ma anche dei datori di lavoro le cui associazioni storiche, a partire da Confindustria, Confcommercio ecc. rappresentano solo una parte del mondo imprenditoriale di riferimento. Ed è così che spesso viene meno la controparte con cui confrontarci. Fosse solo questo il problema del sindacato non ci sarebbe da preoccuparci più di tanto. Il fatto è che anche noi, e non abbiamo problema ad ammetterlo e denunciarlo, abbiamo un po’ perso le coordinate: i criteri che ci hanno guidato nei decenni scorsi sono in parte superati. I contratti collettivi di lavoro, purtroppo, rischiano di rappresentare e garantire sempre meno persone. I giovani spesso non sanno nemmeno che opportunità è il sindacato, fosse solo per il fatto che non hanno nemmeno avuto modo di vivere il lavoro, il luogo fisico, l’habitat naturale dove il sindacato si fa conoscere e apprezzare. La questione non è di poco conto e va affrontata ora per non trovarci spiazzati in un domani ormai prossimo. Prendiamo, ad esempio, una componente importante, di un’organizzazione come la nostra, i pensionati: se saltiamo una o due generazione di lavoratori attivi, di conseguenza, saltano anche altrettanti, futuri, pensionati o lo saranno a condizioni economiche e di coscienza sociale diverse da quelle attuali. Anche certi strumenti per cui abbiamo duramente combattuto necessitano quantomeno di un aggiornamento: che ci voglia uno Statuto dei lavoratori è fuori discussione, che quello del 1970 sia quello più adatto alle esigenze attuali dei nuovi lavoratori , ho qualche dubbio nel momento in cui si parla per esempio di lavoratori autonomi. Lo stesso per gli ammortizzatori sociali: ci vogliono, ci mancherebbe. Se non ci fossero stati, e non ci fossero, oltre che crisi economica sarebbe stata anche emergenza sociale: nati per far fronte a situazioni eccezionali e limitate non possono, da soli, far fronte alla crisi, che per essere superata ha invece bisogno di crescita e sviluppo.
Il sindacato confederale, in Italia, vanta meriti sconfinati per la difesa dei diritti dei lavoratori e della democrazia. Ma c’è bisogno della consapevolezza di come dobbiamo cambiare (evolverci) profondamente, dal punto di vista culturale e organizzativo (e la Cisl ha già intrapreso questa strada). Al contrario si sarebbe rischiato di perdere il contatto con la realtà. Le nostre radici solidaristiche e mutualistiche sono il punto di partenza per il futuro.