INCHIESTA
Precari fino a quando? Le storie

Alessia, Claudia, Francesco. Tre racconti in prima persona di cosa, nel lavoro e nella vita, è oggi il precariato in Italia. Riuscirà il governo Renzi a mettere un freno a un fenomeno dilagante? Su Job di giugno i numeri, le analisi i pareri delle parti in causa.

“Professione precario”. Era questo il titolo di copertina del primo numero di Job uscito  a novembre del 2006. A nove anni di distanza poco è cambiato e se ci sono stati cambiamenti sono stati in peggio. La crisi ha reso cronico il precariato che è aumentato in quantità e, in un certo senso, si è stabilizzato (ocronicizzato). Ormai essere precario è diventata una condizione di lavoro e di vita. Un’intera generazione che non sa cosa sia il posto fisso, che ha iniziato la carriera professionale da precario e così è arrivata alle soglie della pensione. “Fino a quando?” è il titolo del nuovo numero di Job di questo mese dove si fa il punto  della situazione, anche alla luce dei recenti provvedimenti del governo, si raccolgono pareri e opinioni partendo da alcune storie che di seguito riproponiamo in versione integrale. Per leggere i servizi e le interviste clicca qui

ALESSIA  - QUATTRO STAGE IN DUE ANNI

Quando mi sono laureata ero piena di entusiasmo ed aspettative. Avevo ottenuto la lode, una tesi particolare, il coronamento di anni di rinunce e sacrifici. Ero convinta che, se sei bravo, un posto lo trovi.

Dopo due settimane dalla laurea ho iniziato il primo stage. Adesso “ero grande”, mi stavo affacciando sul mondo del lavoro, iniziando con questo stage presso un teatro di Roma, nell’ufficio comunicazione, per 150€: non si possono considerare nemmeno un rimborso spese ma… ho imparato tanto e ho capito che direzione volevo dare alla mia carriera. Dopo i sei mesi, un secondo stage, in una ditta informatica. Mi sarei dovuta occupare di marketing per 400€ al mese. Una volta là, però, lo stage in marketing era diventato fare call center. Non c’è due senza tre, e il terzo stage è stato in Telecom. E dopo questo un altro stage, in Universal Pictures, la grande major del cinema. Ho lavorato con passione, impegno, dedizione e l’apprezzamento dei colleghi. Nonostante tutto sono rimasta a casa. Era settembre 2012.

4 stage in 2 anni, dove la paga maggiore ricevuta è stata 400 euro. Vivevo ancora in famiglia, e quei soldi erano sufficienti per un po’ di indipendenza. Dopo il mio quarto stage non ho più lavorato, se non consideriamo l’aiuto che do gratis ai miei genitori nella loro attività, un piccolo negozio schiacciato dalla crisi, dalla concorrenza delle grandi catene, dalle tasse. Dove loro hanno buttato sangue per vedersi a fine mese con un pugno di mosche. Non prendono lo stipendio da mesi. In questo lungo periodo ho continuato a mandare curriculum; sono andata alle fiere del lavoro, ai Centri per l’impiego; ho consultato - a volte pagando - consulenti di carriera o specialisti nella redazione del curriculum. Ho insomma cercato di percorrere più strade e di stare attiva. Ho persino chiesto un ennesimo sacrificio economico ai miei genitori e mi sono fatta aiutare a pagare un master presso una prestigiosa business school. Ho pensato: “Fare un master farà vedere che mi piace aggiornarmi, che mi impegno, mi darà lustro nel curriculum, mi aiuterà a ricollocarmi”. Ho solo speso soldi, per non ricevere niente in cambio, né in conoscenze né in opportunità lavorative.

In questo anno la mia collocazione è solo tra le fila di tanti laureati e specializzati che, come me, non sanno più come farsi valere in questo mondo che di noi non sa che farsene. Ho fatto 4 stage, non ne vorrei fare altri ma invio comunque il mio curriculum: peccato, sono fuori tempo massimo (12 mesi dalla laurea da normativa vigente) o “signorina lei è troppo qualificata”. Per posizioni più professionalizzate “hai la partita IVA?” o “lei ha troppa/troppa poca esperienza per questo ruolo” o un laconico “ma ha fatto solo stage?”, fino ad arrivare a “lei è sposata?”. Domanda che apre una voragine dentro di me. No, non sono sposata, ma ho un compagno da 8 anni e mando avanti una casa stando attenta al centesimo. Vivo in affitto in un monolocale dove non posso accendere il forno o salta la luce. Niente cinema, o cene fuori. Questa situazione mi blocca nel proseguire la mia vita, perché non so che futuro posso avere. Mi sembra solo di sprofondare.

Ho perso il conto dei job alert che ricevo sulla mail. In un anno ho sostenuto 3 colloqui, tutti negativi. Com’è possibile non scoraggiarsi, non mollare, non deprimersi? me lo chiedo e non trovo la risposta. Sembra che il mondo non abbia posto per una persona che voglia lavorare, che sia aggiornata e professionale, con esperienza. Ho anche pensato di iscrivermi di nuovo all’università, solo per poter fare almeno uno stage. Ma ne vale la pena? Vale la pena, per essere una “stagista seriale”?

CLAUDIA – MI PIACEREBBE ESSERE FLESSIBILE, INVECE .......

Essere precari non significa essere flessibili, come invece molti credono. La flessibilità è la possibilità di muoversi su più fronti, trovare una strada per poi cambiare quando si pensa di poter maturare altrove delle esperienze più interessanti. Il precariato è esattamente l’opposto: la stagnazione delle proprie esperienze e  possibilità future. Mi sento talmente precaria da dover accantonare l’idea di avere un figlio a breve. Per fortuna il precariato lavorativo non corrisponde nel mio caso a quello sentimentale o relazionale e ad un certo punto probabilmente la voglia di avere una famiglia sarà più forte del senso di insicurezza che un lavoro precario può dare. Adesso ho un lavoro, di quei lavori che, anche se abbastanza stabili nell’immediato, sai già che non potrà durare negli anni, e quindi a breve dovrò cercarne un altro.

Da quando mi sono laureata, cioè 5 anni fa, ho lavorato per cinque realtà diverse. Nel primo luogo di lavoro sono rimasta due anni con un contratto di  stage (nonostante fossi una responsabile), poi ho scelto di andarmene per fare un’esperienza all’estero con un’associazione non profit (contratto a progetto pagato pochissimo, visto che figuravo quasi come volontaria), per poi tornare e venir presa all’interno di un ufficio comunale per un anno, con contratto  non rinnovabile (sarei potuta entrare solo con un concorso, che però non era previsto). Nel frattempo brevi lavori con cooperative e associazioni, giusto per arrotondare. E adesso lavoro per la prima volta con un contratto a tempo determinato ma in un campo senza sbocchi professionali, senza poter maturare esperienze e svolgendo una professione che non c’entra nulla con quanto studiato, perché ovviamente si prende quello che c’è. Nonostante i salari quasi inesistenti non sono mai rimasta a casa, perché “se esci dal mercato è difficile rientrare”. Posso considerarmi fortunata perché ho sempre avuto delle passioni al di fuori dell’ambito lavorativo e una vita privata piena e felice, indipendentemente dalle difficoltà a trovare una professione. Convivo da un anno e mezzo, non devo pagare un mutuo e riesco a mettere dei soldi da parte, anche per qualche viaggio e sfizio. Io però ho avuto delle persone che mi hanno aiutata, da sola non avrei potuto andare a vivere per conto mio e  mettere dei soldi da parte. Se adesso sono indipendente non è grazie ad un lavoro stabile, ma grazie a chi prima di me non è stato precario. Ho amici che a 30 anni hanno un posto fisso pagato bene e altri amici che a 32-33 anni non riescono a trovare lavoro e vivono ancora con i genitori, altri che vivono da soli e trovano lavori saltuari riuscendo a guadagnare quanto basta per vivere e sapendo che in caso di difficoltà qualcuno

li aiuterà. Le situazioni sono molto varie. Ma una cosa accomuna tutti: nessuno ambisce al posto fisso nella stessa azienda per più di 30 anni; vorremmo avere la possibilità di cambiare, di crescere, di fare esperienza, vorremmo la vera flessibilità. Ma in questo momento chi ha un posto fisso non riesce a cambiare e chi vive con lavori saltuari non riesce a trovare un contratto decente. L’Italia è un paese che ristagna, che sfrutta, che non ha rispetto. Non esiste un’etica del lavoro e della persona. Tra l’altro noi italiani siamo convinti di essere un popolo molto attento agli altri, ma in realtà siamo molto individualisti e pensiamo solo al tornaconto nostro e di chi ci fa comodo. Finché avremo questo tipo di mentalità, la mentalità del “ti frego io prima che tu freghi me”, continueremo ad avere precariato e non flessibilità. In realtà ormai ti devi accontentare sempre più spesso di lavori che non ti piacciono e con contratti a progetto. Se esistesse in Italia un vero concetto di flessibilità non avrei nessun problema a cambiare lavoro spesso facendo qualcosa che mi piace. Fare in questo momento, con questa situazione, un lavoro che mi piace per poco tempo, non mi darebbe la possibilità di creare una famiglia. Il lavoro viene dopo la mia vita privata, quindi andrebbe benissimo un lavoro a tempo indeterminato, anche se non fosse il lavoro della mia vita (se davvero potessi scegliere tra queste due possibilità).

FRANCESCO – UNA STORIA A LIETO FINE CON MOLTI MA

La mia storia di precario comincia quando ancora questa parola non è diffusa come ai giorni nostri. E’ il 2001 e, ancora studente universitario, vinco una borsa di studio presso il Centro di calcolo dell’università di Messina. Penso sia un’opportunità da non sottovalutare e provo a farmi notare per studio e voglia di fare. Prendo contatto con la realtà del precariato quando ci invitano a iscriverci alla gestione separata per la contribuzione: aderiamo, senza pensare che in seguito avremo parecchio a che fare con queste problematiche.

Nello stesso periodo si presenta un’altra occasione: un concorso a tempo determinato presso l’Ateneo. Partecipo senza troppe speranze, ma, grazie alle nuove competenze, riesco a superare l’esame e firmo il mio primo contratto: un anno a tempo determinato. Tutti mi dicono di stare tranquillo perché presto concorsi a tempo indeterminato mi permetteranno, con l’esperienza acquisita, di “stabilizzare” la mia posizione. Cerco di “produrre” quanto più possibile, nella speranza, quantomeno, del rinnovo contrattuale e a fine 2002 arriva la conferma per un anno, mentre a livello nazionale qualcosa accade: un nuovo governo (Berlusconi) dà una stretta alla PA, tagliando i fondi alla ricerca, quindi agli atenei, e bloccando il turn-over. Comincio a capire che il secondo rinnovo sarà molto difficile da ottenere; continuo a lavorare cercando sempre di dare il meglio e, nel 2003, mi informo sulle prospettive, ma non ricevo risposte rassicuranti. Alla domanda sulla sorte del servizio senza i precari come me, la risposta arriva ben presto: sarà semplicemente interrotto. Bella risposta!

Finito il contratto, inizio ad approfondire la materia contrattuale: CCNL, tempo determinato, rinnovi contrattuali ecc.…. Proprio quell’anno, 2004, la parola “precario” prende sempre più spazio nella mia vita: mi si invita a completare, per cortesia personale, lavori interrotti e, sperando in una positiva evoluzione, mantengo i contatti. Poco tempo dopo, fortunatamente, arriva, dati i vincoli della Finanziaria, un rinnovo di qualche mese, nella speranza di un prossimo (per il 2005) sblocco di fondi e contratti. Speranza infondata, dato l’inasprimento dei già ristretti limiti: turn-over quasi assente e tetto alle assunzioni a tempo determinato; in pratica, niente più rinnovi contrattuali.

Scaduto anche questo contratto, mi rendo conto che nella stessa situazione siamo in tanti: si rivela necessario, pertanto, fare gruppo per trovare soluzioni adeguate. Intanto anche nella PA i contratti Co.co.co., finora ben poco utilizzati, diventano una delle poche alternative per far fronte alle carenze di organico. Nel 2005, dopo l’ennesimo rinnovo di qualche mese, sono emanati bandi per contratti di collaborazione per nuovi progetti, che necessitano di tecnici specializzati. Partecipo e riesco a spuntarla: nel 2006 lavoro come Co.co.co., ma spesso mi viene chiesta la disponibilità a riprendere anche il lavoro precedente, così da non lasciare solo il collega (a tempo indeterminato) che nel frattempo ha preso il mio posto. Mi ritrovo quindi, per non scontentare nessuno, a fare le stesse (quando non di più) ore di lavoro di prima, con una retribuzione inferiore e senza l’ombra di ferie, permessi ecc.

La mia cultura sui contratti di lavoro diventa più ampia e mi appare indispensabile la ricerca, all’interno dello stesso Ateneo, di tutti i colleghi precari per allargare il gruppo. Da qui il primo contatto con i sindacati, che del precariato si occupavano solo in determinati periodi, per lo più in prossimità di elezioni al fine di far conoscere candidati alla ricerca di voti (non precari). Ad “allargarmi le braccia” (in senso siculo) è la CISL, il cui segretario mi invita a tentare di sbrogliare la molto intricata matassa offrendomi la disponibilità del sindacato. Una più concreta speranza si affaccia con l’avvento del nuovo governo (Prodi), quando emerge il problema precariato nelle PA e si comincia a parlare di “stabilizzazione”.

Nel frattempo, la mia situazione contrattuale cambia: dal rinnovo di pochi mesi del contratto a tempo determinato al rinnovo della collaborazione: va avanti la continuità lavorativa “precaria”! Analoga la situazione di altri colleghi, ma i rinnovi contrattuali variano da caso a caso, secondo le necessità dei servizi e delle scadenze.

La “stabilizzazione” grazie a un articolo nella Finanziaria 2007, non è più un miraggio e una più attenta ricerca su Internet mi fa scoprire che l’Università di Messina, con i suoi sessanta precari, è superata da altri atenei. Comincia a prendere corpo un coordinamento dei precari a livello nazionale e si fanno più frequenti e intensi i contatti con la CISL Università. A dicembre 2007 viene approvata la Finanziaria: chi ha tre anni di contratto a tempo determinato, anche non continuativi, può essere stabilizzato. Pur non essendo tra questi (a causa della impossibilità di rinnovo contrattuale in quanto Co.co.co.) ritengo questa norma un buon passo avanti: la stabilizzazione di una parte di precari può essere seria premessa per successivi progressi.

Occorre, a questo punto, coinvolgere i vertici del nostro Ateneo e far comprendere che questa può essere un’opportunità da non farci sfuggire; incontriamo molta diffidenza, anche perché la norma non è chiara per cui ci dicono che “bisogna aspettare una circolare, un chiarimento e, anche in questo caso, molti di voi sarebbero esclusi, quindi il vostro impegno è sprecato”. La battaglia si sposta a livello nazionale, per sottolineare la necessità di una circolare esplicativa su modi, mezzi e risorse per la stabilizzazione nella PA. Ovviamente, gli interlocutori sono il Ministro della Funzione Pubblica e quello dell’Istruzione. Grazie al coordinamento nazionale, riusciamo a convincere i sindacati a organizzare una manifestazione, cui partecipa anche una delegazione della nostra città. Nel corso di un incontro con il Capo di Gabinetto per illustrare la situazione, cui prendo parte come rappresentante della CISL, noto come anche in alto loco non ci si renda ben conto delle conseguenze di quella norma. Ben presto le nostre pressioni danno buoni frutti e circolari esplicative e chiarimenti danno il via al processo di stabilizzazione, mentre nel nostro Ateneo riusciamo a convincere i vertici amministrativi a rinnovare i contratti anche a chi non ha i requisiti della stabilizzazione, nella speranza che, in caso di mantenimento della norma anche negli anni successivi, altri colleghi, raggiunto il requisito dei tre anni, saranno stabilizzati. Non mancano, naturalmente, difficoltà, perché la nostra amministrazione, nonostante la chiarezza del percorso nazionale, prende ancora tempo per avviare l’iter di stabilizzazione. Forti, sul nostro movimento di precari, sono consigli e pressioni, quando non velate minacce, per desistere: il nostro modo di fare appare a parecchi inopportuno e persistere può nuocere sia agli stabilizzati che a coloro che potranno esserlo in futuro. La produzione di una ragguardevole documentazione sblocca finalmente l’iter e inizia il percorso di stabilizzazione!  Dopo le prime stabilizzazioni, a fine 2007, la Finanziaria 2008 conferma le nostre speranze e le stabilizzazioni vengono riproposte l’anno successivo, alla fine del quale circolari e chiarimenti esplicativi consentono di stabilizzare quasi tutto il personale, tra cui il sottoscritto, in possesso dei requisiti richiesti. Una vera gioia aver “conquistato” il posto di lavoro, meta raggiunta, nonostante le difficoltà incontrate: ben 7 gli anni necessari!

Ben contento del posto di lavoro, mi resta dell’amaro in bocca: blocco dei contratti nella PA e riforma delle progressioni di carriera impediscono ogni avanzamento di avanzamento professionale. Senza quegli anni spesi alla rincorsa del posto fisso, forse ora sarei in una situazione migliore sia dal punto di vista economico che da quello del merito. Tuttavia la strada intrapresa è questa e non posso certo arrendermi: le battaglie sindacali continuano per rivendicare quei diritti che nel tempo si sono persi, far riacquistare al sindacato quella forza e quel valore che portano a vincere insieme altre battaglie in un contesto nuovo e sempre più difficile per tutti. Una nuova sfida è alle porte.

06/06/2014
Christian D'Antonio e Benedetta Cosmi
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