Dati del rapporto McKinsey presentati a Bruxelles
Quei nostri giovani pronti per il lavoro

Il rapporto McKinsey, condotto su otto Paesi Ue e presentato ieri a Bruxelles, dice che spingere i giovani verso le fabbriche del 900 può essere un errore. Serve maggiore comunicazione tra educatori e imprenditori, e una visione più lungimirante. I giovani sono pronti a essere messi alla prova dei fatti, ma le aziende che rinunciano a loro sono in vera crisi.

Dal rapporto McKinsey, condotto su otto Paesi Ue e presentato ieri a Bruxelles presso il centro di ricerca Bruegel («Il viaggio tempestoso dell’Europa, dall’educazione all’occupazione») si possono fare delle considerazioni che tengano presente il quadro di atipicità del sistema italiano: gli imprenditori o i loro uomini delle risorse umane non sanno quali competenze servono, quali lavoratori accaparrarsi, le agenzie del lavoro non sanno quali corsi tenere.

Non è raro del resto assistere a grandissime realtà di agenzie del lavoro, come una delle migliori forse Gi Group che in tutta buona fede e anche con una voglia sana di migliorarsi, domanda  disperatamente alle sigle sindacali: “diteci che formazione fare agli aspiranti lavoratori e a coloro da ricollocare”.

Ma cosa dice questo Rapporto McKinsey? “In Italia, Grecia, Portogallo e Regno Unito sempre più studenti stanno scegliendo corsi di studio collegati alla manifattura, alla lavorazione, nonostante il brusco calo nella domanda di questi settori. E in generale, non è una cosa positiva vedere un ampi numero di giovani scommettere il loro futuro su industrie in decadenza…Ci sono abbinamenti sbagliati, educatori e imprenditori non stanno comunicando fra loro”.

Segnale allarmante questa incapacità di cogliere i “bisogni” che avvertiamo quotidianamente quando le nostre aziende non sono competitive, quando non sono all’avanguardia nella comunicazione, quando non sono forti nella ricerca, per scelte sbagliate come il non investire, che vuol dire anche non assumere, personale dedito e capace di farla a livelli innovativi.

Poi arrivano i dati: fonte McKinsey, Agosto-Settembre 2012/2013, oggi riproposti sul Corriere.it con il titolo fuorviante “Quei nostri giovani poco adatti al lavoro”. Ma esistono davvero i giovani non adatti al lavoro? Assolutamente no, e sarebbe un Paese condannato a morte se avesse così tanti “inabili”.

In Italia i selezionatori e a da lì la stampa, quando devono dire cosa serve ad un aspirante lavoratore a colloquio sono soliti recitare una storiella che hanno mandato a memoria come la filastrocca di “Vispa Teresa”: Inglese, Informatica, stage ed esperienza, senza domandarsi se a loro fosse mai stato richiesto ciò, all’accesso, e se nasce prima l’uovo o la gallina, quando loro senza stage senza master senza inglese senza esperienza ne hanno fatta tanta.

Sembra se no più un “alto, biondo, con gli occhi azzurri”, anche se poi magari piacciono più i mori; ovvero i desiderata non sono allineati alle vere necessità, né del mercato né delle aspirazioni personali.

Colpo di scena per coloro che recitano la filastrocca ogni volta? No perché continuano a raccontare la favoletta dei giovani che non hanno sufficienti competenze. Invece la verità? È che le strutture del passato pensate per lavorare gomito a gomito, imparando e insegnando sono state dismesse e sostituite con altri modelli e altri “saperi”?

Serve una introduzione nel mondo del lavoro di grinta, più che di semplici esecutori ad ore. Il problema è quella tendenza tutta italiana di offrire lavori a basso impatto intellettivo, con un rientro di stabilità emotiva per chi gestisce i collaboratori, quindi, di lenta innovazione.

14/01/2014
Benedetta Cosmi
ALLEGATI
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