IMMIGRATI DI SECONDA GENERAZIONE
Italiani e basta

di Maurizio Bove

Se chiudessimo gli occhi e ascoltassimo, senza guardare, la serie di interviste ai cosiddetti giovani di seconda generazione, raccolte dal regista Fred Kuwornu in “18 IUS SOLI - Il Diritto di essere Italiani”, penseremmo ad un documentario in bianco e nero sull’Italia degli anni ‘60, dove i ragazzi rispondono alle domande del giornalista utilizzando ciascuno il dialetto della propria regione. In realtà siamo nel 2013 ed i giovani che parlano con un forte accento napoletano, bergamasco, romano o modenese si chiamano Fakir, Anastacio, Heena o Liu e sono l’immagine stessa dell’Italia di oggi: un Paese che nei fatti è già multiculturale, ma dove i 500mila figli di immigrati, che sono nati e cresciuti qui e spesso non hanno neppure mai visto la terra di origine dei loro genitori, sono considerati ancora stranieri a causa di una normativa che non funziona più.

Parliamo della legge n°91 del 1992, che tra le norme europee in materia di concessione della cittadinanza italiana è una delle più restrittive: 10 anni di residenza regolare nel nostro Paese o 2 anni di matrimonio con coniuge italiano per poter richiedere la “naturalizzazione” e, per quanto riguarda i minori, una rigida applicazione del principio giuridico dello “ius sanguinis”, sulla base del quale si è italiani alla nascita soltanto per diritto di discendenza, se almeno uno dei genitori ha la cittadinanza italiana. Contrariamente a quanto pensa la maggior parte delle persone, infatti, i bambini che nascono in Italia da genitori immigrati, anche se titolari di regolare permesso di soggiorno, non sono italiani. L’unica possibilità che hanno per ottenere la cittadinanza del Paese nel quale trascorreranno tutta la loro vita è quella di aspettare il diciottesimo anno di età, quando potranno farne richiesta al Comune di residenza entro e non oltre il compimento del diciannovesimo anno.

Sempre che lo sappiano, dal momento che la maggior parte delle amministrazioni locali non dà alcuna pubblicità a questa opportunità prevista per i propri giovani “concittadini”, e sempre che non vi siano dei “buchi” nella residenza continuativa dei ragazzi sul territorio italiano: basta un ritardo di pochi giorni nell’iscrizione all’anagrafe, magari perché al momento della nascita del bambino il permesso di soggiorno dei genitori era scaduto, o una temporanea cancellazione dal registro dei residenti, come spesso è successo in occasione del censimento, per perdere tale diritto ed essere costretti a seguire le normali procedure, come tutti i cittadini immigrati. Con la differenza, di non poco conto, che i cosiddetti giovani di seconda generazione non si sentono per niente stranieri, seppur costretti a rinnovare di volta in volta il permesso per soggiornare in quello che è il loro Paese. Non solo perché parlano, pensano e sognano nella nostra lingua, frequentano le scuole italiane dalla materna all’università insieme ai nostri figli e come loro aspirano a trovare un lavoro e a costruirsi una famiglia qui o, al massimo, in qualche grande città europea; ma soprattutto poiché immigrati non lo sono nella sostanza: sono nati in Italia o, al massimo, sono arrivati qui quando erano davvero troppo piccoli per ricordare un altro Paese, quello dei propri genitori, dove forse vanno di tanto in tanto a trovare nonni o parenti lontani e dove sicuramente si sentono e sono vissuti come turisti. Italiani a tutti gli effetti, quindi, se non per la legge, che giorno dopo giorno alza un muro invisibile, ma sempre più alto, tra i giovani italiani e i giovani nati in Italia, obbligando questi ultimi su percorsi comunque più accidentati se non, talvolta, privi di sbocco. A qualcuno potrà sembrare futile il fatto che non sempre possano partire insieme ai compagni di classe per una gita all’estero, perché il proprio permesso di soggiorno è in fase di rinnovo; così come qualcun altro potrà anche pensare che sia giusto negare loro il diritto a partecipare a un bando per il servizio civile o a candidarsi per un posto nella pubblica amministrazione, perché tali opportunità devono essere ancora anacronisticamente riservate ai soli cittadini italiani.

A tutti, però, non può che sembrare assurda l’eventualità, purtroppo non così remota di questi tempi, che un ragazzo o una ragazza siano costretti a lasciare il Paese nel quale sono nati e cresciuti per seguire il destino dei propri genitori, qualora questi dovessero perdere il permesso di soggiorno a causa di un prolungato periodo di disoccupazione. Non a caso, il dibattito che di recente ha coinvolto opinione pubblica e personalità eminenti, in primo luogo il Presidente della Repubblica, ha visto concordare tutti sulla necessità di modificare la normativa ancora oggi in vigore: al di là di qualsiasi valutazione di carattere politico, infatti, il principio dello “ius sanguinis”, introdotto per tutelare “l’italianità” nel mondo quando il nostro era ancora un Paese di emigrazione, non è più in grado di fotografare l’attuale composizione sociale dell’Italia, dove quasi un cittadino su dieci proviene ormai da altri Paesi. In questo senso, anche il nostro Sindacato sta facendo la sua parte. La CISL di Milano, infatti, ha innanzitutto promosso e vinto una serie di “cause pilota”, ottenendo un pronunciamento favorevole, per esempio, sulla possibilità che i cosiddetti giovani di seconda generazione possano partecipare al servizio civile. Inoltre, poiché siamo convinti che le azioni legali debbano essere sempre accompagnate da un paziente e quotidiano lavoro di promozione culturale, abbiamo aderito alla campagna “Le seconde generazioni: una sfida per tutti” , promossa dalla Confederazione a livello nazionale, così come abbiamo deciso di partecipare attivamente alla raccolta di firme “L’Italia sono anch’io” , nella certezza che, se pure con declinazioni più o meno “radicali”, che ci auguriamo trovino la giusta sintesi in sede parlamentare, sia comunque giunto il momento di introdurre nella nostra legislazione il principio dello “ius soli”, sulla base del quale è italiano anche chi nasce e cresce nel nostro Paese.

D’altra parte, tutto questo non è ancora sufficiente. In un Paese dove i cittadini provenienti da altri Paesi non sono più un fenomeno contingente, ma rappresentano ormai una componente strutturale della nostra società, molte sono ancora le sfide da affrontare per costruire l’Italia di domani. A partire da una riforma radicale della normativa generale in materia di immigrazione, che si è rivelata fallimentare sia nel vincolare i nuovi ingressi ad una logica dei flussi funzionale unicamente a periodiche sanatorie, sia nel concepire l’integrazione di chi già vive in Italia come un percorso ad ostacoli, dove non solo la cittadinanza, ma anche il ricongiungimento dei propri familiari sono traguardi incomprensibilmente difficili da raggiungere. Per arrivare, infine, ad una generale ristrutturazione del mercato del lavoro, attraverso una serie di azioni mirate a contrastare il sommerso, a puntare ad una “sana concorrenza” tra lavoratori italiani e migranti, investendo sulla formazione in generale e sulla valorizzazione delle competenze e dei titoli di studio conseguiti all’estero in particolare, e a superare definitivamente l’idea di un’immigrazione che è legittima soltanto quando sostituisce l’italiano nei lavori che “i nostri giovani non vogliono più fare”.

13/03/2013
Maurizio Bove - Dipartimento immigrazione - maurizio.bove@cisl.it
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