LIBERALIZZAZIONI E LAVORO
Parafarmacie, sono poche ma cresceranno

Il mercato è regolato ancora da una legge del 1888. Con le modifiche nei secoli non è cambiato molto. Ma l’apertura favorirebbe anche la diffusione nei piccoli centri.

Timidamente apparse qualche anno fa, le parafarmacie in questi ultimi tempi stanno diventando un po' più numerose e visibili. Com'è noto, si tratta di esercizi commerciali nei quali, oltre a tutta una serie di prodotti non strettamente qualificabili come farmaci,  come integratori alimentari, prodotti erboristici, cosmetici, articoli sanitari ecc., vengono venduti sia medicinali da banco, che non necessitano di ricetta medica, come stabilito dal cosiddetto “decreto Bersani” del 2006, sia un numero limitato di farmaci di “fascia C” ossia medicinali per i quali è richiesta la ricetta ma che il SSN non rimborsa, autorizzazione contenuta nel “decreto liberalizzazioni“ del governo Monti.

Di fatto, si tratta delle prime significative deroghe al sistema strettamente vincolistico che da quasi un secolo governa la vendita al dettaglio di farmaci in Italia. A questo proposito un breve richiamo al passato può aiutare a meglio inquadrare ciò che sta avvenendo oggi.

STORIA -  Il punto di partenza può essere fissato al 1888, anno in cui venne promulgata la “legge Crispi” che in pratica liberalizzava in larga misura l'esercizio della professione farmaceutica. L'unico vincolo rilevante era che la direzione dell'esercizio commerciale doveva essere affidata ad un farmacista; per il resto vi era totale libertà di apertura, chiusura o trasferimento da parte dei proprietari, che potevano non essere farmacisti e cumulare la proprietà di più farmacie. Come si vede, a parte l'obbligo di avere un direttore responsabile farmacista, le farmacie venivano trattate alla stregua di qualsiasi altro esercizio commerciale. E a chi pensasse che risalendo a Crispi l'abbiamo presa un po' troppo alla larga, possiamo rispondere facendo notare come il regime giuridico della legge del 1888 sia più o meno uguale a quello delle odierne parafamacie, le quali appunto, si differenziano da un qualsiasi altro negozio  principalmente per il fatto che, per legge, devono essere dirette da un farmacista laureato.

Comunque sia, la legge venne ampiamente criticata in quanto provocò la concentrazione delle farmacie nelle città, dove maggiori erano le possibilità di guadagno, a spese dei piccoli centri, che tendevano a rimanere sguarniti. Si arrivò così alla riforma del 1913, nota come legge Giolitti, che introduceva l'odierno regimo vincolistico. Fu istituita  la pianta organica, ossia si fissò per legge quante farmacie potevano esserci in ogni comune, sulla base del numero dei residenti. La farmacie diventavano delle concessioni governative ad personam e venivano assegnate tramite concorso pubblico per soli titoli. La concessione durava quanto la vita del titolare e non poteva essere ceduta. In questo impianto “pubblicistico” della legge esisteva però una falla significativa, che reintroduceva in maniera obliqua la concezione della farmacia come bene patrimoniale privato. Sebbene alla morte del titolare la farmacia dovesse essere posta a concorso, una disposizione particolare prevedeva che la conduzione del figlio o del coniuge superstite, se farmacista, costituisse titolo di preferenza assoluto. Inoltre, se figlio o coniuge erano iscritti al corso di laurea in farmacia, potevano continuare a gestirla, purché nominassero un direttore responsabile farmacista fino al compimento degli studi.

Come si vede, la norma era concepita in maniera tale da rendere la farmacia, che formalmente rimaneva una concessione governativa conseguita per concorso, e quindi senza pagamento di corrispettivo allo Stato, quasi un bene ereditario, con l'unico obbligo del conseguimento della laurea da parte degli eredi diretti. Mancava, come abbiamo accennato, la possibilità di disporne in vita, ossia di venderla. A ciò provvide la successiva riforma del 1968, nota come legge Mariotti, che sebbene abbia subito numerose modifiche (che peraltro ne accentuano la valenza privatistica che stiamo cercando di mettere in luce) nel suo impianto generale è tuttora in vigore. Con essa il cerchio si è chiuso, nel senso che viene detto a chiare lettere che la farmacia, che formalmente rimane una concessione pubblica, è vendibile, purché il cedente ne abbia acquisito la titolarità da almeno cinque anni (oggi tre) e l'acquirente sia farmacista e abbia conseguito “l'idoneità alla titolarità”, abbia cioè superato una prova d'esame.

Ed è a questa situazione, concepita scientemente per creare delle rendite di posizione, che i riformatori, o liberalizzatori degli ultimi anni, come Bersani e Monti, stanno tentando di porre rimedio. Finora le resistenze sono però state tali, che non si è riusciti ad attaccare direttamente l'impianto delle leggi Giolitti-Mariotti, ma ci si è dovuti limitare a scalfirlo, introducendo delle deroghe per alcune categorie di farmaci e rendendo così possibile la nascita delle parafarmacie.

GRANDI E PICCOLI CENTRI - D'altra parte, l'unico argomento serio che potrebbe essere portato a difesa dello staus quo , ossia il ripetersi di quanto è accaduto durante il periodo di vigenza della legge Crispi, la concentrazione  delle farmacie nei grossi centri a scapito dei paesi, è ormai anacronistico, e questo per due ordini di ragioni: in primo luogo oggi nel consumo di farmaci, considerato come spesa pro capite, non vi sono sostanziali differenze tra città e campagna. Di conseguenza è poco probabile che, una vota liberate dal vincolo della pianta organica, gli esercizi tendano a concentrarsi nelle città, lasciando così scoperto il non meno redditizio mercato costituito piccoli centri. In secondo luogo oggi in Italia abbiamo un numero di laureati in farmacia che non è certo quello del 1913, tanto è vero che molti di loro sono o disoccupati o costretti a lavorare come dipendenti sottopagati dei farmacisti titolari, mentre qualcuno sta fortunatamente trovando una migliore collocazione nelle parafarmacie. Anche mettendo in conto che una liberalizzazione porti ad un aumento del numero di farmacie, il serbatoio di disoccupati e sotto-occupati è così grande che verrebbero coperte anche le aree più isolate e spopolate.

Infine, una considerazione: Giolitti era liberale mentre Mariotti era socialista. Senza voler trarre da questo dato di fatto più di quanto sia lecito fare, possiamo però pensare che un certo modo di concepire le cose in senso vincolista, più attento a garantire che un servizio venga comunque erogato che ad evitare che si creino situazioni monopolistiche sia stato trasversale ai tradizionali schieramenti politici negli ultimi cento anni in Italia. Quanto ai liberalizzatori, il meno che si possa dire è che non sono mai stati molto popolari, e non ci riferiamo solo a Crispi.

10/12/2012
Giovanni Provasi - Ust Cisl Milano
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