di Danilo Galvagni
Sembra che, alla buon’ora, più o meno tutti si siano accorti che il problema
centrale del nostro Paese è quello del lavoro. La difesa dei salari
falcidiati dal fisco e dall’aumento del costo della vita per chi un posto almeno
ce l’ha, la ricerca di un’occupazione per un numero, giovani e meno
giovani, sempre più crescente di disoccupati.
Non so quali luci in fondo al tunnel della crisi il Presidente del Consiglio
Monti e i suoi ministri riescano a vedere. Il quadro che si presenta
a occhio nudo è sconfortante: produzione e occupazione in calo (anche
nella grande industria); 150 vertenze aperte presso il ministero dello Sviluppo
che interessano 180mila lavori; commercio in ginocchio, mercato
immobiliare retrocesso di anni. E si potrebbe continuare con l’aumento
dei carburanti, la contrazione dei consumi e via di questo passo. È vero,
se non si alleggerisce almeno un po’ la pressione fiscale sugli stipendi, è
impensabile che la gente torni a spendere. Il ministro Fornero, scoprendo
come spesso le accade l’acqua calda, ha detto che bisogna ridurre il cuneo
fiscale (la differenza fra quello che pagano le aziende e quello che va
effettivamente in tasca dei lavoratori), come e con quali risorse
ancora non si sa. Le ipotesi che circolano sono tante. Fra queste
c’è quella della Cgil che prevede la riduzione delle tasse
già dalla prossima tredicesima. Una proposta all’apparenza
ineccepibile ma che, se analizzata a fondo, è portatrice di un
limite che a sua volta produce un pesante elemento di diseguaglianza:
il limite è che riguarda solo i lavoratori dipendenti
e la conseguente diseguaglianza è che lascia fuori tutti coloro
che di mensilità non ne hanno nemmeno dodici. Scorciatoie
simili sono illusorie, non servono e bisogna avere il coraggio
di percorre strade nuove, anche se impervie, che sappiano tenere
insieme le giuste richieste dei lavoratori assunti con quelle di chi il
lavoro non ce l’ha o è precario.
Una possibile via d’uscita è quella che noi sindacalisti chiamiamo “contrattazione
di secondo livello”, con le imprese e “concertazione territoriale”
con le istituzioni. Nel primo caso si tratta di difendere il potere d’acquisto
di lavoratori dipendenti attraverso l’alleggerimento del carico fiscale
legato alla produttività e ad altri incentivi aziendali a cui vanno aggiunte
azioni di welfare per la difesa e l’estensione dei servizi sociali fondamentale.
Parallelamente la contrattazione territoriale con le Istituzioni e
deve favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro (anche attraverso
la riqualificazione professionale) per chi non ce l’ha mai avuto o per chi
l’ha perso. In questo senso anche il welfare deve essere inteso non solo
come risposta ai bisogni delle persone in difficoltà ma come mezzo per
generare nuova occupazione.
Solo tenendo insieme le esigenze di chi lavora e di chi è disoccupato si
può individuare uno spiraglio di uscita dalla crisi. Certo a monte
di questo ci vogliono scelte generali coerenti e determinate:
una nuova politica industriale che prenda atto dei mutamenti
di questi anni, la razionalizzazione della pubblica amministrazione
per recuperare efficienza, un serio contrasto all’evasione
fiscale (130 miliardi all’anno, due o tre ‘finanziarie’ messe insieme),
investimenti mirati nella ricerca e nell’innovazione senza
le quali non c’è competitività. Rendere produttivo il patrimonio
pubblico: perché invece di vendere gli immobili di Stato non
si destinano ad Enti e gruppi culturali con il vincolo preciso di
progettare interventi capaci di generare lavoro e redditività?