NOSTRA INCHIESTA SULLA FORMAZIONE
Vale ancora la pena studiare?

Dalla nostra indagine si evince che studiare paga sempre. Ma meno che all’estero. E soprattutto i più preparati, in tempi di crisi, sono penalizzati. Leggete le storie che abbiamo raccolto e raccontateci le vostre esperienze a info@jobedi.it.

Mentre l’Italia era in vacanza, l’Istat ha consegnato a questo autunno di crisi un ennesimo spunto di riflessione. Studiare, molto e bene, non è sinonimo di successo nel mondo del lavoro. Infatti, nel primo trimestre dell’anno i “dottori” in cerca di occupazione erano oltre 300mila in tutto il Paese, il dato più alto da quando 8 anni fa si è iniziato a fare statistiche di questo tipo. In un anno l’aumento di laureati in cerca di occupazione ha superato il 40% e la maggior parte di questo esercito di preparati e sfaccendati, sono donne (oltre 185mila).

COME SI SPIEGA

Innanzitutto partiamo da un dato incontrovertibile: la situazione italiana già non era delle migliori: chi ha un’istruzione universitaria ha speranza di essere pagato di più (36%) di chi ha solo il diploma ma all’estero il differenziale sfiora il 50%. L’Istat segnala che un laureato guadagna in media 1.600 euro al mese, un diplomato 1.243. In altre parole, nel nostro Paese, chi ha un livello d’istruzione superiore non è premiato in termini di reddito. Piuttosto, la progressione salariale è associata all’anzianità e non alla conoscenza e all’abilità. Ma non è l’unica incongruenza. Una ricerca dell’università Bicocca di Milano ha provato che i laureati più bravi, con voto superiore al 106, sono sempre più impiegati in mansioni scarsamente retribuite (seppur stimolanti) come il comparto ricerca e sviluppo. Perchè, quindi, da noi chi è più bravo e chi più sa, o non trova o se trova non viene ricompensato?

INIZIARE CON LO STAGE

Per cominciare in Italia c’è un problema culturale. Da una recente indagine di Gi Group, ai ragazzi interessa più l’aspetto relazionare del posto di lavoro che fare carriera. E poi tutti considerano il lavoro manuale un “male necessario”. I giovani del 2012 sono più propensi ad accettarne uno rispetto ai genitori, se pure in condizioni di alta professionalità, stipendio adeguato o temporaneamente (pari merito 28,5%). E con il 30% di disoccupazione giovanile occorre dare un occhio alla classifica del mis-match, i lavori che nessuno trova e nessuno vuole fare. Da tempo Unioncamere e Ministero del Lavoro monitorano il mercato, ma pochi ci guardano. Attualmente ci sono 74 professioni con possibilità di occupazione, quasi tutte nel campo dell’artigianato, ma senza candidati. I dati del Consorzio Almalaurea dicono che la strada migliore per chi ha studiato è iniziare con lo, spesso, vituperato stage. Il governo sta facendo qualcosa per impedire forme di sfruttamento, ma entrare sul mercato appena usciti dalle aulee accademiche è un’esperienza da fare. Il 57% dei laureati del 2010 ha svolto un periodo di stage in azienda riconosciuto dal corso di studi. A un anno dalla fine dell’università, la probabilità di occupazione dei laureati specialistici che hanno effettuato stage curriculari è superiore del 14% rispetto ai colleghi che non l’hanno fatto. Su 100 laureati che frequentano un master circa l’80% trova un lavoro. Tanto meglio se al master è accompagnato uno stage: il 44% circa stipula un contratto con l’azienda con cui ha fatto il tirocinio.

LE STORIE

Se è vero che il vizio sta a monte (in Italia in istruzione si spende 100, in Spagna si arriva a 174 e in Germania a 204) vale la pena andare a sentire direttamente gli interessati, i neo-laureati. C’è da dire che sono ancora merce rara in Italia, visto che nella fascia di popolazione di 55-64 anni, praticamente l’attuale classe dirigente, a partire dalla politica, sono laureati 10 italiani su 100. «Mi sono rimboccata le maniche e sono venuta a fare un part-time in libreria – ci dice Ilaria, 28 anni, laurea in Lettere - perchè tutti dicono che i laureati sono pochi ma poi ti scontri con la realtà del mercato e nessuno ti prende. Del resto la mia formazione non è specialistica e quindi un lavoro te lo devi inventare. Almeno non sono finita col pezzo di carta e basta». Il suo sogno? «Bibliotecaria», dice senza esitazione. Poi c’è Luca, appena uscito dalla triennale di Psicologia a pieni voti che per arrotondare ha fatto fin da diplomato lavori di scrittura per varie testate. «Ho iniziato a studiare la materia più per conoscere me stesso che per un futuro inserimento nel mercato. E non è che la situazione attualmente mi dia molto conforto: ci sono tanti miei colleghi che si sono dati ad altro e anche le risorse umane, che erano il ripiego preferito degli appena usciti dall’università, sono sature». Uno che c’è riuscito però l’abbiamo trovato, ed è il classico caso di chi adatta il titolo di studi alla situazione contingente. Un avvocato di 30 anni che è finito (felicemente) a fare lo spedizioniere in un’azienda di macchine utensili. Ecco come ci ha raccontato la sua storia Emanuele: «Ho preso la laurea in Giurisprudenza con ritardo, perchè le mie condizioni famigliari mi imponevano di studiare e lavorare al tempo stesso. E una volta conquistato il titolo ho fatto praticantato per avvocatura più per inerzia che per altro. Quando mi son guardato intorno, ho scoperto che c’era una grande carenza di esperti legali nel settore delle transazioni internazionali. Specialmente il diritto doganale ora è molto richiesto in virtù dei grandi scambi commerciali, soprattutto su nave, che le aziende italiane hanno con l’Oriente. Ho individuato il settore, mi sono specializzato e ho subito trovato un posto. E devo dire che è un lavoro che al momento non cambierei».

24/09/2012
Christian D Antonio - c.dantonio@jobedi.it
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