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I giovani e il (poco) lavoro

di Francesco Giubileo

I telegiornali in questa calda estate elencano la triste vicenda di cronaca annunciata: ovvero che il tasso di disoccupazione giovanile è sempre più alto. Alcuni esperti, spesso avanti con gli anni, regalano interpretazioni del fenomeno che sono le stesse da ormai vent’anni.

Prima hanno suggerito di introdurre strumenti di deregolamentazione, i policy makers hanno ascoltato (si veda le Leggi Treu e Biagi) e si è creato il fenomeno del “precariato” (solo marginalmente affrontato dalla riforma Fornero). I dati parlano chiaro, il lavoro a somministrazione e l’atipicità non hanno migliorato l’occupazione del Sud, ma certamente hanno peggiorato quella del Nord.

Secondo la mitica leggenda del “mismatch” tra domanda e offerta di lavoro, le imprese italiane richiedono “fior-fior di lavoratori” che il sistema universitario non è in grado di offrire, i policy makers hanno ascoltato e il sistema è stato “inondato” da una marea di formazione professionale di secondo livello (da non confondere con la formazione professionale dei quattordicenni o quella continua).

Non mi è chiaro dove vivano queste persone o dove abbiamo vissuto negli ultimi vent’anni, ma il nostro Paese è composto dal 95% di piccole o micro-imprese (3-4 persone) e non necessita minimamente di laureati, ma al massimo di tecnici professionali. Infatti l'Italia presenta un altissimo tasso di sovraistruzione e non coerenza (in realtà soprattutto per alcuni  indirizzi) tra laurea e lavoro.

Comunque il risultato è stato una catastrofe ed è ancora in corso, dato che le politiche attive del lavoro sono diventate sinonimo di corsi di formazione professionali quasi sempre slegati da valutazioni d’impatto, perciò non è nemmeno conosciuto quanto sia esteso il fenomeno di spiazzamento (avendo frequentato il corso si può verificare un ritardo nell’entrare nel mercato del lavoro ) e certamente sono diventate fonte di rendita per le strutture di formazione.

A ciò si aggiunge che la situazione è nettamente peggiore di quella descritta dalle fonti “ufficiali”, in quanto il tasso di disoccupazione giovanile, oggi ormai al 36%, considera occupati coloro che hanno svolto almeno un’ora di lavoro in una settimana, ma dato il livello di “precarietà” presente in Italia, è corretto definire delle persone occupate se lavorano solo un giorno alla settimana?

Inoltre, l’Istat, nel tasso di disoccupazione non tiene conto dei giovani abili al lavoro che risultano “inattivi”, ma che formalmente sarebbero anche disposti a lavorare. Questi sono i cosiddetti “scoraggiati” e spesso anche neet (soggetti che non lavorano e non studiano) che sommandoli ai disoccupati “ufficiali” porterebbero il tasso di disoccupazione al 60-70 per cento.

A questo punto torniamo alla questione centrale, perché la disoccupazione giovanile in Italia è così alta?

Il primo motivo è legato agli effetti della Cassa integrazione in deroga , se da una parte ha garantito che la crisi non si trasformasse in una “macelleria sociale” per gli Over 50, dall’altra il sistema si è completamente bloccato impedendo alle nuove generazioni di entrare nel mercato del lavoro. Infatti, le imprese per chiedere la Cassa non potevano contemporaneamente assumere e la recessione economica ha evidenziato tutti i limiti di una economia stagnate da dieci anni. Anche in caso di ripresa, probabilmente le opportunità di lavoro saranno molto basse e incapaci di assorbire i posti di lavoro persi in questi anni.

Un secondo motivo è legato alla mancanza di liquidità per iniziare nuove attività imprenditoriali, dove gli interventi pubblici sono estremamente limitati dalle linee guida comunitarie e i prestiti agevolati hanno quasi sempre fallito, molti giovani non hanno sufficienti  garanzie per  assumere spesso onerosi rischi d’impresa.

Infine, l’ultimo motivo è che alcune opportunità di lavoro, anche in questo momento di crisi, in realtà ci sono e rappresentano il principale sbocco occupazionale dei migranti. Sono proprio quei lavori manuali qualificati o non qualificati che i giovani italiani non vogliono più fare, perché poco desiderabili o perché lo stipendio non è superiore al salario di riserva (cioè quel salario che fa decidere al disoccupato se lavorare o meno). Tuttavia, sfatiamo anche qui un mito, pure ottimizzando l’incontro domanda e offerta comunque il rapporto tra disoccupati e posti di lavoro vacanti in questi settori è di circa 50 a 1.

Allora che fare? Quali possibilità ci sono per i giovani? L’Europa, proprio lei, può fornisci e suggerirci alcuni strumenti.

Innanzitutto, va completamente cambiata la visione di una politica attiva del lavoro legata solo esclusivamente alla fase formazione professionale a discapito della fase di intermediazione (riorganizzando il rapporto tra pubblico e privato). In particolare, se è il lavoro che serve si può adottare un modello di turnover tra giovani e anziani, attraverso due strumenti come il Voucher -selezione e la Job-rotation finanziandoli tramite l’iniziativa Youth Opportunities e i fondi sociali non ancora utilizzati. Inoltre, per ridurre i tempi nella ricerca di lavoro è possibile fornire “orientamento mirato” attraverso l’analisi delle fonti amministrative e le mappe di densità.

Infine, è possibile combinare l’assistenza ai non autosufficienti con le politiche attive del lavoro e ancora garantire alle future generazioni un fondo per un Capitale di base in grado di garantire una possibilità per tutti. Queste e altre proposte le trovate in Una possibilità per tutti, proposte per un nuovo welfare di Giubileo Francesco, Secondavista Edizioni (www.secondavistaedizioni.it).

29/08/2012
Francesco Giubileo - scrittore e studioso del mondo del lavoro - info@jobedi.it
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