Riprendiamo la prima parte dell'articolo di Rosalba Gerli, psicologa e psicoterapeuta, responsabile dello Sportello Disagio lavorativo e Mobbing di Cisl Milano Metropoli, con l'ultimo intervento.
Per Maria ed Anna, invece, i problemi sono cominciati prima: all’annuncio delle nozze di cui erano appena apparse le pubblicazioni e al rientro dal viaggio di nozze. Maria lavorava da circa sei anni in un’azienda commerciale a conduzione familiare di modeste dimensioni, dove si occupava delle relazioni esterne con clienti e fornitori e della comunicazione. Le mancavano pochi esami al conseguimento della seconda laurea. I guai sono iniziati il giorno stesso in cui ha consegnato l’invito a nozze ai colleghi e ai datori di lavoro. Lo stesso è successo ad Anna che al rientro dal viaggio di nozze si è trovata spogliata di un ruolo, senza mansione, ignorata dal suo capo e datore di lavoro, che imponeva anche alle colleghe di non rivolgerle la parola, fintanto che è sopraggiunto il licenziamento. Nel frattempo entrambe si sono rivolte al servizio psicologico per il disagio lavorativo della Cisl per problemi correlati alla situazione lavorativa. Entrambe infatti hanno sofferto di una sintomatologia che corrispondeva ad uno stato misto di ansia e depressione, con disturbi del sonno e un corollario di sintomi psicosomatici.
ALTRE STORIE, ESPERIENZE IDENTICHE
Per Elisabetta invece, quarantenne, dopo anni di lavoro in un’agenzia di assicurazioni, dove aveva raggiunto un ruolo di responsabilità, il trauma è avvenuto al rientro da un breve periodo di malattia conseguente ad una gravidanza che si era interrotta spontaneamente al terzo mese.
Rientrando, infatti, ha trovato un clima molto ostile nei suoi confronti; è stata aggredita verbalmente, isolata e demansionata. Quindi i suoi superiori hanno cominciato ad addebitarle delle contestazioni disciplinari e dopo circa due mesi e mezzo è stata licenziata sotto lo sguardo complice dei colleghi. Elisabetta mi aveva mostrato l’angolo in cui era stata posta la sua scrivania, isolata, rivolta contro il muro. Oltre al dolore per la perdita subita in seguito all’interrompersi prematuro della gravidanza, Elisabetta ha dovuto affrontare anche la perdita del lavoro, tutto questo in un tempo brevissimo (nell’arco di tre mesi) con ovvie conseguenze traumatiche sul suo mondo interno, per la cui elaborazione è ancora in psicoterapia, a distanza di due anni. Ci sono diversi aspetti che accomunano queste vicende: accadono a donne giovani che hanno una vita lavorativa gratificante, appassionate del loro lavoro, con delle buone potenzialità e il desiderio di realizzarsi affiancando all’impegno professionale anche le proprie scelte affettive quali il matrimonio, la costituzione di una propria famiglia e la scelta della maternità, pensando che queste due scelte siano compatibili, mentre invece si trovano la strada sbarrata e incorrono in situazioni traumatiche che fanno crollare insieme alla loro progettualità, il loro equilibrio psicologico, la loro autostima, le credenze e i sistemi di valori a cui si erano ispirate.
Ma la domanda si pone anche a noi: una vita affettiva felice e una soddisfacente vita professionale sono inconciliabili?
La mia risposta è assolutamente no! Una donna felice e realizzata affettivamente sarà in grado di esprimere il meglio di sé stessa anche nella vita professionale ed è per questo che molte aziende realizzano politiche di conciliazione vita-lavoro, perché sanno che il benessere aziendale si correla al benessere delle persone al loro interno, cui corrisponderà un risultato positivo e di maggior qualità del prodotto o servizio finale. Poi c’è un altro aspetto: la funzione sociale della maternità. Una società senza figli, senza nuovi nati, indifferente verso il tema della maternità e poco attenta alle esigenze dei bambini e dei giovani, corrisponde ad una comunità in declino, incapace di creare le condizioni per un proprio futuro che è necessariamente collegato alla capacità generativa, nel senso anche di saper creare delle prospettive per le nuove generazioni, che potremmo definire, utilizzando le parole della Sociologa Chiara Saraceno, “il capitale umano”. Lo psicoanalista e pediatra inglese Donald Winnicott, le cui teorie ed esperienze cliniche costituiscono un importante fondamento della moderna psicoanalisi infantile, ha messo in luce come non sia possibile pensare un bambino piccolo da solo, senza la madre, dato lo stretto legame che li unisce, in quanto la crescita psicofisica del bambino dipende dalle “cure materne”. Egli ricondusse la teoria dello sviluppo emotivo a partire da prima della nascita e durante la prima infanzia, formulando la nozione di “madre ambiente” o di “madre sufficientemente buona” per descrivere l’importanza del ruolo materno, sopratutto nel primo anno di vita (Winnicott, 1965).
Dalla gravidanza e durante il primo anno di vita del bambino la madre è occupata, infatti, in quella che egli definisce come “preoccupazione materna primaria” (Winnicott, 1956), vale a dire uno stato di empatica identificazione con il figlio che le consente di intercettare i suoi bisogni e stati fisici ed emotivi permettendo di rispondervi positivamente, “facendo la cosa giusta al momento giusto”, adeguando le sue risposte alle varie fasi di crescita del lattante. Affinché questo possa avvenire è necessario - afferma Winnicott - che tutto l’ambiente circostante, a partire dal padre e dalla famiglia stretta, sino alla comunità in cui la famiglia è inserita, svolga il ruolo di ambiente facilitante e sufficientemente buono in grado di proteggere l’importante relazione madre-bambino (Winnicott, 1965).
Egli descrive, infatti, l’ambiente facilitante come un sistema di cerchi concentrici che coinvolgono tutta la società e le sue istituzioni, dal governo alla famiglia. Secondo Winnicott (1950), garantire l’evoluzione di uno sviluppo affettivo individuale sano consente agli uomini di raggiungere una sana maturità da cui dipende la vera democrazia di una società. Solo, infatti, un sano sviluppo emotivo-affettivo, correlato all’esperienza di un ambiente sufficientemente buono che abbia saputo creare le condizioni per l’esperienza di buone relazioni primarie, consente di imparare ad amare e al contempo controllare la propria distruttività. Tuttavia egli afferma che solo una parte degli uomini raggiunge questo stadio, motivo forse per cui appare anche così difficile realizzare condizioni di vera democrazia, come la storia ci mostra. Ora è evidente che queste considerazioni mettono in luce la drammaticità delle vicende occorse per es. a Giovanna e Federica rispetto alle quali non sono state garantite le condizioni di salvaguardia delle condizioni di benessere della diade madre-bambino, necessarie sin dalla fase prenatale e perinatale, vale a dire durante la gravidanza e dalla nascita, nel primo anno di vita del bambino. Le molestie non hanno costituito violenza solo sulla madre ma anche sul bambino che nel primo anno di vita, fase così importante per lo sviluppo psico-fisico, è indissolubilmente legato alle cure materne, tanto che i turbamenti e la sofferenza della madre non può che riflettersi sulla vita del figlio e richiede, infatti, come testimoniano i racconti di Giovanna e Federica, tutta la forza e l’amore materno per cercare di proteggerlo dalla loro stessa sofferenza emotiva.
E’ fondamentale pertanto a mio avviso tenere presente queste considerazioni quando trattiamo casi di molestie nei confronti delle madri perchè le conseguenze dei comportamenti vessatori e di violenza nei loro confronti ricadono anche sui figli e pertanto va richiamata una responsabilità nei confronti di entrambi.Tant’è che probabilmente, come è emerso in diversi casi che ho seguito, si tratta di monitorare e valutare anche le conseguenze sulla qualità della relazione madre-bambino e sul comportamento del bambino, offrendo un aiuto anche in tal senso. Ci sono per esempio madri che non sono riuscite a portare a termine l’allattamento e bambini che hanno mostrato disturbi alimentari in correlazione con lo stato di disagio della madre. E’ necessario dunque riportare la dimensione nella giusta prospettiva, in cui la maternità, quale evento felice e di grande significato sociale sia sostenuta mentre la violenza nei confronti delle madri, o delle donne che aspirano a diventarlo, sia punita.
E’ la qualità dell’attenzione e della cura che una società riserva ai propri figli, alle nuove generazioni composte di giovani (comprese le giovani madri e i giovani padri) e bambini, a determinare il suo grado di civiltà prima ancora dello sviluppo tecnico scientifico ed economico.
Questo significa che anche nel mondo del lavoro e non solo nelle famiglie è proprio parlare di “capacità affettiva”, collegandola al benessere aziendale e alla gestione delle relazioni.
Bibliografia:
Mastretta, A, Donne dagli occhi grandi, Giunti, Milano, 1990.
Winnicott, D.W.,(1965) Sviluppo affettivo e ambiente: studi sulla teoria dello sviluppo affettivo, Roma: Armando, 1974.
Winnicott, D.W.,(1956), “La preoccupazione materna primaria” in Dalla pediatria alla psicoanalisi, Firenze, Martinelli, 1975.
Winnicott, D.W., (1965), “Alcuni significati della parola democrazia”(1950) in La famiglia e lo sviluppo dell’individuo, Roma, Armando, 197
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