Le sanzioni per «tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti... ».
Due nuovi traguardi in queste ultime settimane, sul piano regolativo, sono stati raggiunti in Italia in tema di tutela nei riguardi della violenza sulle donne. Alla notizia, risultando più che positiva, è stato, difatti, dato ampio spazio dai mezzi di comunicazione, ma se ogni passo in avanti, seppur piccolo, è sempre di grande rilievo, è nella sostanza che qualche delusione, nello specifico, emerge con evidenza. Se al Parlamento europeo è stato approvato in prima lettura il regolamento riguardante la protezione comunitaria per le vittime di violenza, alla Camera dei Deputati è stato approvato, all’unanimità dei voti (di tutti i presenti, purtroppo non molti) il ddl di ratifica della Convenzione di Istanbul, relativa al tema della violenza sul lavoro, in particolare volta al sanzionare «tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, sia nella vita privata». In tal senso, se il collegamento tematico tra i due provvedimenti, mirati entrambi alla più ampia sfera della violenza sulle donne, è evidente, di contro, una medesima correlazione non si riflette nella natura giuridica di ciascuno. Mentre per il primo, difatti, una volta approvato dal Consiglio dei Ministeri Europeo, essendo un regolamento, l’entrata nel corpo normativo italiano sarà diretta e obbligata (anche se la decorrenza è prevista a partire dall’11 gennaio 2015), per il ddl di ratifica della Convenzione di Istanbul, occorrerà necessariamente (anche) l’approvazione al Senato e il successivo impegno (l’ostacolo più alto) a tradurre concretamente le disposizioni in esso previste, in misure legislative concrete, per poter considerare definitiva l’applicazione, giungendo così a dettare le regole precise al fine di «prevenire, indagare, punire i responsabili e risarcire le vittime di atti di violenza commessi da soggetti non statali».
TANTI DECRETI UN SOLO FINE
Sullo stesso piano, al pari della natura giuridica, anche l’apporto normativo risulta essere un aspetto che differenzia sostanzialmente i due provvedimenti. Se il regolamento europeo, difatti, introduce in Italia una garanzia importante per le donne (e i bambini) vittime di violenza coniugali, costrette a spostarsi da un paese comunitario all’altro ai fini della protezione, riducendo in modo significativo le trafile procedurali a cui fino ad oggi erano soggette; caso diverso, invece, è per quanto regolato dall’atto di recepimento della Convenzione, nel quale gli aspetti trattati, seppur di fondamentale rilevanza ( come i casi di stalking o di stupro , o le diverse forme di discriminazione, di mutilazione dei genitali, fino ai matrimoni forzati), non trovano un vuoto normativo in Italia, ma una già ricca produzione di tutele. In particolare, ricordiamo, il dlgs. 231 del 2001, in tema di responsabilità amministrativa delle società, nel quale, tra i reati perseguiti (ai quali il dlgs 81/08 s.m. ha aggiunto quelli relativi alla salute e sicurezza sul lavoro) vi è proprio la mutilazione dei genitali femminili. Ma se la copertura normativa, già vigente in Italia, risultando ampiamente adeguata, può rappresentare una ragione sufficiente a determinare un atteggiamento di complessiva freddezza tra i nostri parlamentari e nell’opinione pubblica, verso l’arrivo dal circuito internazionale di tali nuovi provvedimenti (senza contare che se non saranno almeno dieci gli Stati a ratificarla, la Convenzione non diventerà operativa), è il risvolto operativo e concreto delle diverse disposizioni, che nel nostro Paese segna il ritardo più vistoso . Non si può, in effetti, dimenticare che ad oggi l’Italia è in mora da parte della commissione del dialogo sociale europeo, a causa del protratto ritardo accumulato nel recepire l’Accordo quadro in tema di molestie e violenza sul lavoro, stipulato il 26 aprile 2007, tra le Parti sociali europee. Apertosi il tavolo subito dopo la firma stipulata a Bruxelles, giunti ad una prima traduzione condivisa dalle Parti sociali italiane, il blocco dei lavori è arrivato da parte delle associazioni datoriali che, impegnate nella gestione della crisi economica che si è abbattuta sulle aziende dell’intera europa, ma in particolare su quelle italiane, non si sono rese disponibili a concludere definitivamente il recepimento, e quindi la stipula dell’Accordo in versione italiana. Introducendo da parte dell’Accordo, difatti, un obbligo a carico di ogni impresa nel dover redigere specifiche concrete procedure interne di gestione della prevenzione, della tutela e della protezione dei casi di molestie e violenza sul lavoro, le associazioni datoriali, hanno ritenuto di non voler oberare le aziende al dover provvedere alla stipula di tali interventi regolativi, in un momento difficile, come quello attuale.
VIOLENZA SUL LAVORO
Non condividendo la posizione assunta dalle associazioni datoriali, ma comprendendo le ragioni poste alla base di tale decisione, è altrettanto giusto precisare che se i casi di violenza sul lavoro nel nostro Paese sono ridottissimi, è il fenomeno della violenza domestica (un caso ogni tre giorni circa) a rappresentare la vera emergenza a cui dover dare immediata risposta, a partire proprio, non da ulteriore produzione legislativa, ma dall’applicazione rigida di quell’insieme di regole che già attualmente fanno parte del nostro complessivo assetto normativo, non trascurando l’assicurare la certezza della pena. In questo senso, quindi, è
fondamentale che cresca un impegno sociale al promuovere le più diverse azioni
, al fine di richiamare gli organi di giustizia e, ancor prima, le forze dell’ordine, a garantire un’applicazione efficace delle disposizioni regolative previste in tema di violenza sulle donne, a partire già solo dagli atti di molestia e intimidazione che, nella maggior parte dei casi rappresentano l’anticamera degli atti (spesso più efferati) di maltrattamento e violenza.