Indagine SDA Bocconi
All'estero la flessibilità paga. Da noi si paga

La flessibilità può essere un mediatore fra le aziende e i lavoratori e le lavoratrici, ovvero fra business e bisogni sociali?”

La ricerca e stata promossa dall’Osservatorio Diversety Management della Sda Bocconi per approfondire e dare una risposta al dilemma: “la flessibilità può essere un mediatore fra le aziende e i lavoratori e le lavoratrici, ovvero fra business e bisogni sociali?” Per realizzare la ricerca e rispondere al “dilemma” sono analizzate, monitorate, per  ben 5 anni  50.000 posizioni di lavoro. La situazione italiana sulla flessibilità emersa, è che in Italia, la flessibilità c’è ma è soprattutto quella orientata all’azienda e non alle lavoratrici e ai lavoratori.

In Italia sulla flessibilità vigono ancora troppi stereotipi uno dei quali è che la flessibilità incide sul livello della produttività aziendale.  I dati però ci dicono che in Italia le ore lavorate per singolo lavoratore/lavoratrice, sono di più della media delle ore lavorate e che la nazione che ha più flessibilità, i lavoratori e le lavoratrici lavorano meno ore, ma con una produttività più alta. L’altro stereotipo è che la flessibilità è un costo.  La ricerca risponde che in effetti alcuni costi ci sono. Ci sono costi diretti come la riorganizzazione degli uffici o l’allestimento di nuove posizioni lavorative e quelli indiretti come per esempio un maggior “affaticamento” organizzativo, ma nulla di paragonabile ai vantaggi che la flessibilità può dare.

Ma quali sono i vantaggi? Per le aziende più flessibili c’è un minor assenteismo, più produttività, perché ognuno tende a lavorare quando è più produttivo, anche il lavoro è pui ben fato perche si lavora quando uno riesce a dare più performance; infatti la ricerca ha rilevato che una persona tende a dare il meglio di sé se è valutato sui risultati. Per la lavoratrice e per il lavoratore, la flessibilità permette di avere meno stress sul lavoro, impatta positivamente sulla salute e benessere personale, favorisce la soddisfazione e la motivazione sul lavoro e permette meno interferenze della famiglia sul lavoro perché si concilia meglio. I risultati della ricerca permettono di affermare che “la flessibilità” non è, né un problema di scarsa produttività, né di maggiori costi. E’ fondamentalmente un problema culturale.

Purtroppo, la ricerca rileva anche che, in Italia, le culture aziendali percepiscono una netta separazione fra il lavoro in azienda e la vita privata, separazione, che con le moderne tecnologie non ha più ragione di essere. Inoltre, nelle aziende che attuano la work balance,  quelle attente ai bisogni sociali dei propri dipendenti, la stessa non viene percepita come strumento di flessibilità, ma come concessione, strumento riparatore, alle lavoratici e ai lavoratori. Altro stereotipo è la fedeltà aziendale vissuta come quantità di presenza. La ricerca evidenzia che uno dei problemi di difficoltà per realizzare la flessibilità è il valore  che le culture aziendali danno alla presenza fisica dei dipendenti. Il “presenzialismo” come valore è molto diffuso nelle società italiane. Ancora troppi meccanismi, formali e informali, come il successo, il percorso di carriera, ecc.. è legato al tempo in cui si sta in azienda. Il modello ideale è  quello maschile, ovvero essere totalmente disponibili, ed è visto come negativo l’utilizzo delle misure conciliative, ance se previste in azienda.

La ricerca della Boccini ha poi voluto verificare e quantificare le diverse forme di flessibilità adottate e quale impatto esse hanno sulla carriera del/della dipendente, analizzando  di essi gli ultimi 5 anni di vita lavorativa nell’azienda. Le posizioni analizzate sono state 70.000 e i criteri di rilevazione sono stati il cambiamento dell’orario da full-time a part-time e da part-time a full-time confontandolo con chi ha mantenuto il solo full-time. Sul percorso di carriera invece i criteri  utilizzati sono stati; la performance individuale, il cambiamento di livello e gli incentivi/bonus non automatici. La ricerca ha riconfermato, e in questo caso scientificamente, che la flessibilità impedisce un percorso di carriera per tutti, uomini e donne. Inoltre la ricerca suddividendo i risultati del campione tra uomini e donne, rileva che le donne, che usano flessibilità, sono ancora più svantaggiate degli uomini. Inoltre, la stessa ricerca rileva che le donne hanno i bonus non automatici, più bassi di quelli degli uomini, anche se le donne hanno valutazioni personali più elevate

Questa la ricerca che potete andare a rileggervi sul sito della Sda Bocconi, ci riconferma, ancora, che nelle nostre aziende la flessibilità è confusa con la precarietà, contratti co.co.co, co.co.pro, ecc.. e non invece come un nuovo modello di organizzazione del lavoro, valutato sui risultati e sulla performance personale. E’ necessario attivarsi per una nuova cultura del lavoro, un nuovo modo di vivere il lavoro, come persone impegnate sia nella crescita dell’azienda, sia nella crescita di sé, dei propri talenti, con responsabilità personali atte a migliorare sì, la produttività aziendale, ma anche la propria vita all’interno dell’azienda migliorandone i rapporti, il clima aziendale e perche no, guadagnando anche di più.

01/10/2012
Luigia Cassina Responsabile Coordinamento Donne Cisl Milano - info@jobedi.it
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