INNOVAZIONE
La via italiana a Impresa 4.0

Sul numero di Job di novembre si fa il punto sui progressi, i vantaggi e i rischi, di impresa 4.0. I numeri, le parole per capire, cosa dicono e chi sono i destinatari del piano del governo e soprattutto le esperienze dirette nel settore industriale, nell'edilizia, nel commercio e nei servizi.

Dieci miliardi di investimenti dal governo, 20% di imprese che mostrano interesse. E la conoscenza del progetto e delle sfide che aumenta. Partiamo da quest’ultime senza dimenticare le tutele per i lavoratori. Un dato comunque è certo: Impresa 4.0 è ormai una realtà, con la quale bisogna confrontarci.

Quando parliamo di Impresa 4.0 facciamo riferimento a come cambia la maniera di produrre beni e servizi grazie al progresso. È la quarta volta che nella storia dell’uomo si attraversa una rivoluzione produttiva e questa è sotto gli occhi di tutti. Cambiano i modelli, cambiano i rapporti di produzione e anche quelli tra datore di lavoro e lavoratore.

I CARDINI - L’utilizzo dei dati come strumento per creare valore è la base della quarta rivoluzione industriale, perché con i numeri si prevedono le produzioni e si evitano gli sprechi. Far fruttare la raccolta dati è la mossa intelligente di ogni imprenditore, piccolo o grande che sia. Il rapporto uomo/macchina è un altro aspetto cruciale di questa rivoluzione: chi sa comunicare tra digitale e reale vince la sfida dell’ammodernamento. In ultimo arriva la capacità di trovare i modi, gli strumenti per produrre i beni. E quindi stampa 3D, robot, interazioni tra macchine.

Il termine Industria 4.0 fu coniato dall’esperto tedesco Henning Kagermann alla fiera di Hannover anche se esperti digitali lo usavano fin dal 2005. Sintetizzava tutte le trasformazioni che all’epoca sembravano avveniristiche. E oggi la Germania è capofila in Europa per il processo di automazione che non ha creato emorragie occupazionali. E l’Italia?

COSA FA L’ITALIA – La rivoluzione arriva in un momento buono per il nostro Paese. La produzione industriale di macchinari presenta una crescita da inizio 2016 a luglio 2017 di circa +4%, a fronte di un fatturato che nello stesso periodo è aumentato del 15% e di una forte riduzione delle scorte (ai minimi). Per questo nella seconda metà dell’anno ci si aspetta che la produzione sia più allineata con la crescita del fatturato.

A novembre 2015 il ministero per lo Sviluppo economico ha lanciato lo studio «Industry 4.0, la via italiana per la competitività del manifatturiero». In sintesi: come fare della trasformazione digitale dell’industria una opportunità per la crescita e l’occupazione. Da qui l’impegno a sostenere start up ma anche rafforzare la lotta ai pericoli con cybersecurity e tutela della privacy. Il percorso italiano è ostacolato dall’arretratezza delle infrastrutture di Rete. Ma il ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda, è determinato a superarlo. Ha annunciato che nel 2018, le imprese che effettueranno

una spesa in formazione avranno accesso al cosiddetto “credito di imposta su formazione 4.0”.

In origine il piano Italiano è stato lanciato a settembre 2016 finora ha dimostrato di essere efficace. Dal report del gruppo Digital360, elaborato in collaborazione con Ibm, si evince che il 48% delle imprese che hanno avviato la trasformazione, è partito quest’anno. E dal 2018  il credito di imposta si applicherà ai costi del personale che ha sostenuto corsi di formazione con focus su almeno una tecnologia Industria 4.0 e pattuiti attraverso accordi sindacali sulle seguenti tematiche: vendita e marketing; informatica; tecniche e tecnologie di produzione. Altre misure: 30% fino a 3 anni sia la quota detraibile annualmente dall’Irpef sia le deduzioni Ires.

Basterà? Per il momento i dubbi sembrano essere dissipati: la trasformazione tecnologica, come leggerete negli approfondimenti, porterà nuove competenze e necessità di riadattamento. Ma per chi resta indietro, soprattutto se è piccolo dimensionalmente, il problema sarà serio.

INTERVISTA  MARCO TAISCH, POLITECNICO DI MILANO

Abbiamo fatto le imprese, ora facciamo i lavoratori

Non basta acquistare nuove macchine. La riqualificazione e la formazione del personale è la condizione  affinché la IV rivoluzione industriale decolli definitivamente. Le condizioni ci sono e i segnali sono confortanti

Il massimo esperto di Impresa 4.0 in Italia assicura che in campo ci sono le strategie giuste: “Siamo partiti bene perché abbiamo portato prima l’innovazione nelle aziende, e ora ci dedicheremo alla formazione”, dice il docente del Politecnico a Milano Marco Taisch. Che per inciso ha cura l’Osservatorio da cui si attingono i numeri della rivoluzione tecnologica in atto e ha anche fatto parte della cabina di regia governativa .

Professore, ma se Industria 4.0 è un bene per l’Italia, perché gli studi sulle professionalità sono così allarmistici? Gli studi sono allarmistici perché prendono le professioni di adesso e le proiettano nel futuro. Non è possibile fare questo, perché ci saranno nuove figure che andranno a sostituire quelle vecchie. Gli studi falliscono perché non tengono conto di una cosa: se un’azienda oggi è meno produttiva e non innova e rinnova, è chiaro che ha prezzi più alti e vende di meno. Con Industria 4.0 diventa più competitiva e quindi la domanda aumenta e avrà bisogno di impiegare più persone. L’effetto di aumento di produttività porterà beneficio.

Ci favorirà anche nella competizione globale?

Siamo in prossimità di un grande cambiamento. Il sistema Paese avrà benefici perché riusciremo ad abbattere i differenziali di costo con certi di Paesi del sud est asiatico che ci hanno fatto concorrenza. Ora lì la manodopera sta diventando meno conveniente. A questo, aggiungiamo che l’automazione ha lo stesso prezzo in Cina e in Italia. Facile capire che stiamo per tornare competitivi davvero.

La produzione su scala internazionale cambierà?

Ci sono due fenomeni: la personalizzazione del prodotto, e Amazon è un esempio, con un consumatore veloce ed esigente. Con queste richieste non si possono produrre beni dall’altra parte del mondo. È una rivoluzione della globalizzazione. Le produzioni di massa  di un tempo saranno soppiantate da un volume meno importante ma diffuso in tutto il mondo.

Che misure per il 2018 l’Italia si impegna a mettere in campo?

Essendo confermata la misura sul super e iper ammortamento, siamo passati a occuparci di qualcosa oltre le macchine. E cioè la formazione delle persone, con il credito di imposta per chi forma. I dati sono confortanti, gli ordinativi delle macchine utensili del terzo trimestre segnano più 68% rispetto al 2016. Gli investimenti in asset produttivi e dati del fatturato sono in aumento. La manovra mi sembra ben recepita, abbiamo effetti superiori alle aspettative.

È aumentata la consapevolezza del cambiamento?

Non sottovalutiamo il dato sulla conoscenza, un valore che non è conteggiato nel Pil, ma che l’anno scorso a maggio vedeva il 40% degli imprenditori ignari sull’argomento. Quest’anno erano alll’8%. Vuol dire che al di là delle decisioni sulla misura fiscale, l’impresa è consapevole che esiste una rivoluzione tecnologica che avrà impatto sul business. Una vittoria culturale  della trasformazione nel sistema industriale italiano. L’imprenditore è avvertito. Deve capire, valutare e provvedere a investire, se non vuole restare indietro. Anche il percorso degli incentivi è stato costruito con attenzione: prima si è lavorato sulla parte tecnologica e ora si lavora sulle competenze.

Possiamo imparare dall’esperienza dell’estero anche questa volta?

Ci paragoniamo sempre alla Germania perché loro sono il primo, e noi il secondo paese manifatturiero d’Europa. Però lì ci sono delle grandi industrie che concentrano molti ammodernamenti al loro interno. Noi, con la filiera produttiva ramificata e fatta di piccole aziende diffuse, dobbiamo far dialogare tecnologia e impresa ma anche mettere in rete quest’ultime. Ci vuole una visione imprenditoriale più ampia,  non basta comprare macchine nuove.

Quali sono le ricadute sociali e sul lavoro di questa rivoluzione?

La gerarchia lavorativa diventa più piatta, snella, veloce, nel lavoro si assiste alla smaterializzazione del tempo. Eravamo abituati a pagare lavoratori a tempo, oggi dobbiamo pagare sull’output del valore che generano. Il lavoratore non è più in ufficio, non timbra, non lavora legato a un ambiente, quei vecchi parametri su cui si impostava la relazione contrattuale a settimana devono essere ripensati. Se il dipendente è sempre connesso e reperibile in qualsiasi luogo bisogna rivedere il concetto di spazio tempo. Trovare nuove formule contrattuali è la sfida difficile da vincere.

Con questi ammodernamenti, possiamo ipotizzare anche maggior rispetto dell’ambiente?

La green economy vuol anche dire consumare di meno, non solo approvvigionamento di energia più verde. Se io riesco a misurare con dati e mi avvalgo dell’internet delle cose e uso i cloud riesco ad avere produttività e logistica più efficiente. Anche gli sprechi si potranno ridurre rispettando di più l’ambiente. Il mio timore è che dopo aver digitalizzato le fabbriche gli imprenditori non sappiano bene come usare le innovazioni. Dobbiamo capire che conoscere meglio il sistema produttivo deve portare a consumare meno. Bisogna saper leggere questo risparmio e passare ad azioni correttive subito.

22/11/2017
d Christian D'Antonio
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