L'ex coach della nazionale di pallavolo, bronzo alle Olimpiadi di Londra, spiega come migliorare la cultura sportiva.
Sportivo, formatore, scrittore. Mauro Berruto, ex allenatore della nazionale italiana di pallavolo (con la quale ha vinto un bronzo alle Olimpiadi di Londra e due argenti europei), è un uomo dai molti interessi. Al recente Festivaletteratura di Mantova ha tenuto un incontro intitolato “Atleti e artisti alla ricerca di capolavori”. Amministratore delegato della Scuola Holden (la scuola di scrittura di Alessandro Baricco), sta lavorando a un volume su un lottatore vissuto a inizio ‘900. Il suo ultimo libro si intitola “Independiente Sporting”.
Berruto, a cosa serve lo sport?
E’ una domanda complicata. La prima cosa che mi viene da dire è che lo sport serve a migliorare il mondo. Lo sosteneva anche Nelson Mandela. Dentro questa frase c’è tutto. Lo sport è uno strumento privilegiato di educazione, cultura, senso civico, rispetto delle regole, integrazione, collaborazione… E’ un linguaggio universale come la musica e l’arte.
La scuola non sembra curarsi troppo dello sport.
La scuola ha deciso deliberatamente di dare meno dignità all’insegnamento delle discipline sportive rispetto a quello di altre materie. E’ un dato di fatto, purtroppo. Il sistema anglosassone, ad esempio, è molto diverso. E la cosa è ancora più grave se pensiamo che lo sport è penalizzato soprattutto nella scuola primaria, tra i più piccoli.
Ogni tanto capita di leggere di genitori che si insultano o si azzuffano alla partita dei figli.
Questi episodi sono una piccolissima parte di un universo fatto da migliaia e migliaia di persone e associazioni che ogni week end mettono in moto lo sport italiano, portando i propri atleti a competere nelle palestre e nei campi più sperduti. Come si suol dire, fa sempre più rumore un albero che cade di una foresta che cresce. E’ giustissimo segnalare e isolare i comportamenti scorretti, ma non dobbiamo pensare che siano la norma. Il problema comunque c’è.
E come si risolve?
Facendo crescere la pratica sportiva. Chi ha fatto sport, a qualsiasi livello, ha degli anticorpi fortissimi contro certi atteggiamenti. Di solito chi si comporta male lo sport lo vede solo in tv dal divano di casa. Spesso mi viene chiesto perché certi episodi non si verificano nella pallavolo. La risposta è semplice: perché buona parte del pubblico della pallavolo è composto da praticanti ed ex praticanti. Se aumenta chi fa sport, aumenta anche la cultura sportiva. Io ho vissuto nel nord Europa e lì ho imparato la differenza fra essere tifosi e praticanti sportivi. Che non vuol dire fare dell’agonismo, ma semplicemente andare a camminare, correre, in bicicletta… Significa prendersi cura di se stessi e quindi della comunità in cui si è inseriti.
Che effetto le fa sentire le cifre che girano nel calciomercato, inarrivabili per le altre discipline?
Io sono un grande appassionato di calcio e non demonizzo quel mondo. E’ un mondo orientato al business, alla produzione di uno spettacolo, pagato da chi va allo stadio o ha un abbonamento a una pay-tv. Quindi risponde a dinamiche differenti da quelle di altri sport. Sono dimensioni diverse. Io però ho un’idea.
Cioè?
Penso che sarebbe molto bello ed educativo se il calcio, proprio perché gode di quel tipo di economia e ricchezza, riversasse un po’ di risorse anche a favore della diffusione della pratica di altri sport. Sarebbe un messaggio dirompente. Io ho allenato in Grecia, dove esiste questo culto della polisportiva. Le grandi società, soprattutto di calcio, hanno divisioni dove si fa basket, pallavolo, pallanuoto, atletica…
Lei va spesso a parlare nelle aziende. Quali valori dello sport possono essere trasferiti nel mondo del lavoro?
Io arrivo da uno sport, la pallavolo, in cui il concetto di “squadra” sta sopra tutti gli altri. Nelle aziende vale lo stesso principio: i singoli talenti devono mettersi al servizio della squadra, perché così si raggiungono i migliori risultati e perché è con la squadra che si possono concretizzare anche i propri sogni individuali.