LIBRI
Lemaitre: la Prima Guerra Mondiale e il racconto di una generazione perduta

Il vincitore del prestigioso Premio Goncourt racconta il libro “Ci rivediamo lassù” (Mondadori).

“Cosa significa vincere il Premio Goncourt? E’ qualcosa che ti cambia completamente la vita”. Pierre Lemaitre, intervenuto alla diciottesima edizione del Festivaletteratura di Mantova per presentare il libro “Ci rivediamo lassù” (Mondadori), insignito nel 2013 del prestigioso riconoscimento letterario francese, è schietto. Apprezzato, soprattutto Oltralpe, come autore di gialli, con il romanzo ambientato alla fine della Prima guerra mondiale ha fatto centro (l’Italia è stato il primo Paese a tradurlo, ma poi ne sono seguiti molti altri).

“In un attimo, da scrittore di polizieschi sono diventato un autore rispettabile, un vero autore. Il giallo da noi è considerato un sottogenere. Adesso posso dire che Marcel Proust, anche lui vincitore del Goncourt, è un collega. Questo premio in Francia è un simbolo, non è solo un riconoscimento letterario. Dopo che l’ho vinto ho ritrovato tanti  amici di infanzia che non ricordavo di avere…”.

Lemaitre scherza con il pubblico mantovano, ma il suo libro non è affatto uno scherzo. E’ invece un grande romanzo, nato quasi per caso. “E’ un incidente di percorso: ho iniziato con l’idea di scrivere un giallo ambientato alla fine della Prima guerra mondiale, ma dopo 150 pagine mi sono accorto che non funzionava. La storia però mi piaceva, quindi per conservarla ho lasciato perdere l’elemento giallo e ho continuato a lavorarci”.

Il libro è l’affresco di un’epoca tragica, il racconto di una generazione perduta, e ruota tutto attorno al rapporto (di amicizia, ma anche di complicità) tra due reduci (Edouard Péricourt e Albert Maillard) e tra loro e la società. Due uomini diversissimi (uno è di umili origini, l’altro molto ricco) uniti dalla comune esperienza sui campi di battaglia (Edouard salva la vita ad Albert dopo un assalto contro il nemico). “Il primo conflitto mondiale occupa un ruolo importante nella storia e nella cultura francese. Praticamente tutte le famiglie ne sono state in qualche modo toccate. E il problema dei reduci, del loro reinserimento sociale, è stato centrale. I soldati che tornavano feriti dal fronte facevano paura e venivano tenuti lontano. Il libro parla di questo. Da bambino avevo terrore del volto devastato di un ex combattente che abitava non lontano da casa mia”.

Le gravi ferite sul viso caratterizzano anche uno dei protagonisti del libro (Edouard), impegnati a sopravvivere (con tutti i mezzi, anche illegali: i due inventeranno una truffa allo Stato per vendicarsi) in una realtà che li respinge, che ne fa degli indesiderati. “La Francia del 1918 era un Paese in rovina, con finanze pubbliche disastrate e un tasso di disoccupazione altissimo. Per i reduci c’era solo un po’ di compassione, anche volendo era difficile accoglierli. E poi i francesi volevano voltare pagina”.

“Ci rivediamo lassù” è anche una sorta di risarcimento, di riconoscimento postumo, allo sforzo e al sacrificio di chi, spesso giovanissimo, ha combattuto una guerra di cui, in larga parte, non conosceva neppure le ragioni. Lemaitre, alla cerimonia di consegna del Goncourt, ha spiegato che l’impulso a scrivere gli è venuto dalla collera, un sentimento che è andato crescendo man mano che si documentava e riempiva le pagine.  E che, sia pure per ragioni diverse, è ancora vivo nella società. “E’ difficile fare paragoni tra la Francia del 1918 e quella attuale, ma ci sono delle assonanze. In fondo quegli uomini hanno fatto quello che gli aveva chiesto il Paese: sono andati in guerra, hanno combattuto e una volta a casa si sono trovati soli, abbandonati. Un po’ come succede adesso a molti che dopo aver lavorato una vita, messo su famiglia ed essersi indebitati per comprare una casa, a 50 anni si trovano senza lavoro”. Come dire, fatte le debite proporzioni, che i reduci di ieri ricordano i disoccupati e i precari di oggi.

Lemaitre non si prende troppo sul serio e non manca di ironizzare su certi colleghi “intelligenti”. “C’è chi dice che scrivere è soffrire, è un mestiere che mette a dura prova e nasce da ispirazione divina. Per me scrivere è gioia, è un privilegio. A scrivere mi diverto, non soffro. Non posso parlare di ispirazione, al massimo di traspirazione. Io sono come un artigiano”. Al Festivaletteratura  si è detto simile a un idraulico, che sistema le tubature  (in fondo il romanziere assembla dei pezzi, facendo in modo che tutto funzioni…). In un recente articolo sul Corriere della Sera si era, invece, paragonato a un orologiaio. Definizione più “fine” per un vincitore del Goncourt.

03/11/2014
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