Gli incidenti gravi e mortali sul lavoro, negli ultimi anni, hanno registrato in Italia un lieve rallentamento. Quello che è successo in Bangladesh non può lasciarci indifferenti: sono gli effetti della globalizzazione e della terziarizzazione estrema.
Negli ultimi anni i dati sugli infortuni sul lavoro, mortali e gravi, hanno registrato un lieve, ma significativo decremento, pur tenendo conto della diminuzione in ore del tempo di lavoro complessivamente svolto.
Il segnale dell’efficacia dei tanti interventi di prevenzione realizzati nel tempo, sembra quindi cominciare a dare i primi risultati concreti. Ma se la strada intrapresa sembra positiva, i segnali che giungono dalle altre parti del pianeta, non lo sono allo stesso modo.
Solo pochi giorni fa, a Dacca, in Bangladesh è accaduta una delle più grandi tragedie sul lavoro mai registrate: 427 morti e 1200 feriti, molti in modo grave, senza contare i circa 300 dispersi che ad oggi non sono ancora stati ritrovati. A cadere è stato un palazzo di circa nove piani nel quale vi erano almeno cinque delle più grandi aziende tessili del Bangladesh, un centro commerciale ed una banca; complessivamente quasi 3 mila persone, delle quali però ad essere colpite dalla tragedia del crollo sono state quasi interamente solo quelle impegnate nelle fabbriche tessili, costrette a recarsi al lavoro anche a fronte degli evidenti segnali di pericolo evidenziati i giorni precedenti dalle profonde crepe sui muri.
E’ un paese lontano, il Bangladesh e le aziende colpite erano tutte locali. Per questo forse, fino dall’inizio del drammatico evento, la notizia non ha trovato a lungo le prime pagine dei giornali, ma data la notizia di cronaca, nelle ore seguenti, l’accaduto è stato sùbito relegato nelle pagine centrali dei quotidiani dedicate ai fatti del mondo.
Gli echi del villaggio globale però, troppo spesso evocati solo quando sono gli effetti positivi ad interessare, come un’onda d’urto sono tornati in questi giorni a far riparlare della tragedia, ma in termini diversi e, per molti aspetti, con rilievi molto più pesanti, visto il coinvolgimento, seppur indiretto, del nostro paese, attraverso alcune aziende italiane.
Per quanto fino ad oggi emerso, le fabbriche tessili distrutte dal crollo sarebbero le maggiori fornitrici di importanti marchi di abbigliamento leader del settore in tutta europa, come la spagnola Mango, le inglesi Primark e Bon marchè, ma non meno le italiane, Benetton ed Essenza Spa (che produce il marchio Yes-Zee).
E’ il fenomeno della terziarizzazione, che in questi casi è estrema, perché prevede che lo spostamento della produzione sia molto lontano, ma che ritrova le stesse ragioni che in Italia stanno determinando un aumento smisurato di lavori dati in appalto, del numero di lavoratori autonomi, della parcellizzazione delle imprese.
Spostare il problema per non doverlo affrontare, ridurre i costi del lavoro non dovendo preoccuparsi di garantire forme di tutela adeguate per i propri lavoratori, sembrano oggi le ricette che molti imprenditori stanno attuando per fronteggiare la crisi, ma al contempo per rimanere miopi di fronte alle conseguenze che tali scelte vanno a determinare sui soggetti più deboli appartenenti ad ogni popolazione.
Dal 2001, il DLGS n.231, combatte tali fenomeni avendo posto sotto sanzione, con pene anche di natura interdittiva e pecuniaria pesantissime, le società che compiono reati, tra cui anche la violazione di norme antinfortunistiche, per proprio interesse o vantaggio, mediante le proprie figure apicali. Ma se tale normativa interviene anche nei riguardi delle società italiane che operano all’estero, nulla può nei riguardi di società estere.
Passi rilevanti in questi anni sono stati fatti nel campo della responsabilità sociale delle imprese e, in specifico, per il settore del tessile mediante la Campagna Abiti Puliti, quale sezione italiana della Clean Clothes Campaign che, da più di venti anni, punta a sensibilizzazione i consumatori sulla lotta contro gli sfruttamenti e l’affermazione dei diritti dei lavoratori delle grandi industrie dei paesi poveri.
Nei riguardi proprio del Bangladesh, è da tempo in atto un programma denominato Bangladesh Fire and Building Safety Agreement mediante il quale si prevedono, a cadenza frequente, ispezioni da parte di soggetti terzi internazionali nelle fabbriche, al fine di verificare le condizioni di lavoro, il rispetto dei diritti dei lavoratori, le garanzie di tutela della salute sicurezza sul lavoro.
Se oggi si parla di Bangladesh, essendo uno dei paesi mondiali a maggior esportazione tessile (solo nel 2012 sono stati esportati circa 200 milioni di jeans) – non potendo dimenticare quanto già successo solo novembre scorso, sempre nella città di Dakha, dove in una fabbrica persero al vita 112 lavoratori – non meno drammatica è stata la morte di quasi 300 lavoratori, lo scorso settembre per colpa di un incendio, in uno stabilimento pakistano.
Rifuggendo l’inaccettabile scelta tra lavoro e salute, lavoro e diritti, la sfida che oggi si delinea davanti al nostro futuro prossimo non è più solo quella che riguarda le regole da dettare e rispettare nel nostro piccolo orticello, ma il governo dell’intero sistema produttivo mondiale, nei riguardi del quale ognuno di noi, per quanto di propria diretta ingerenza, deve sentirsi chiamato a promuovere azioni che possano favorire una crescita e sviluppo all’insegna della più ampia sostenibilità.
L’influenza che i consumatori possono determinare nell’ambito di questo sistema, è molto rilevante; per questo occorre che si sviluppi sempre di più una coscienza collettiva informata e consapevole.