di Cinzia Frascheri
La presentazione del Rapporto annuale dell’INAIL crea ogni anno un’occasione per riflettere sui dati che riguardano il numero degli infortuni e delle malattie professionali che si sono determinati nelle diverse realtà lavorative del nostro sistema produttivo.
Strumento di rilevante importanza, il Rapporto annuale fornisce la più significativa e puntuale analisi dell’andamento infortunistico dell’anno immediatamente precedente alla pubblicazione del rapporto, fornendo una fotografia aggiornata della situazione complessiva sull’intero territorio nazionale (corredata anche di tutti i dati contestualizzati per chiavi di interrogazione, a partire dagli indicatori più significativi quali il genere, l’età, il settore produttivo, l’area geografica, la dimensione delle aziende..).
Ma se il Rapporto INAIL fornisce dati utili per poter meglio conoscere il fenomeno degli accadimenti e delle malattie professionali, è nei riguardi dei dati non immediatamente “evidenti” che occorre, sempre di più, concentrare l’attenzione e gli sforzi comuni per poter svolgere una concreta ed efficacia azione di cambiamento sostanziale della situazione attuale e di progressivo e diffuso miglioramento.
La casistica presentata dal Rapporto annuale, se costituisce un resoconto puntuale del trend infortunistico nel mondo del lavoro, di contro non rappresenta il quadro delle condizioni reali di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, presenti nelle realtà lavorative italiane.
Da questa differenziazione fondamentale ne discendono considerazioni che, pur non negando l’importante dato registrato, nello specifico, dall’ultimo Rapporto annuale INAIL 2011, di una flessione generale del 5% degli infortuni sul lavoro (percentuale di rilievo, in quanto tiene conto delle variabili dell’andamento occupazionale e delle ore lavorate), ne evidenziano la parzialità delle analisi e delle informazioni a disposizione.
Il numero delle aziende controllate dall’INAIL nell’anno 2011, allo scopo di verificare situazioni di mancata regolarizzazione delle posizioni assicurative dei lavoratori, risulta essere di circa 21.000 aziende. Un numero che, se confrontato con il bacino complessivo delle realtà lavorative italiane, risulta con evidenza di scarsa rilevanza e penetrazione, ancor più se rapportata alla costatazione della necessità delle verifiche, tenuto conto che (già da tale circoscritta azione di controllo) è emerso che circa l’86% delle imprese è in una condizione di irregolarità, nella quale una percentuale rilevante è determinata da situazioni di lavoratori totalmente “in nero”.
Confrontando quindi i dati ISTAT (che registrano quasi 3 milioni di unità lavoro in nero) con gli indicatori di rischio INAIL, si può giungere a ritenere che, rapportato all’anno 2010 (Rapporto INAIL 2011), circa 164.000 infortuni mancano alla rilevazione percentuale degli eventi infortunistici accaduti (ma soprattutto, denunciati). Se poi a tale dato si aggiungono, restando nell’ambito delle situazioni irregolari, tutti i lavoratori che, pur prestando attività lavorativa continuativa, risultano titolari di partita iva (e di conseguenza, non nel diritto di pretendere condizioni di tutela da un datore di lavoro, come previsto dalla normativa per i lavoratori dipendenti), l’analisi del fenomeno infortunistico, assume una connotazione meno confortante degli annunci che hanno accompagnato, nella giornata di martedì, la presentazione dei dati del Rapporto INAIL 2011.
Solo il mese scorso, si assisteva – con preciso atto normativo – all’ennesima proroga concessa alle piccole aziende (su pressione delle associazioni datoriali) nei riguardi dell’obbligo di svolgere la valutazione dei rischi e il rispettivo documento, sulla base delle procedure standardizzate (già pronte ed approvate dalla Commissione consultiva permanente), al posto dell’autocertificazione (risultata nel tempo, non una semplificazione meramente documentale, ma un passaporto per le aziende al non svolgere alcuna analisi dei rischi). Un ritardo che se certamente determinerà delle conseguenze di potenziale più alto tasso di rischiosità e, di cui, comunque, se ne dovranno misurare gli effetti attraverso i dati del prossimo rapporto, già nel Rapporto INAIL 2011, sono rilevanti i segnali che affiorano. L’aumento delle malattie professionali (di circa il 9,6%) ne è una prima diretta conferma.
L’impegno profuso nell’azione di emersione delle malattie professionali (mediante una campagna info-formativa, a livello nazionale, condivisa da tutte le istituzioni e le forze sociali), certo ne è una delle leve principali che ha determinato il processo di aumento delle denunce, ma non si può trascurare che se il numero dei decessi per infortunio mortale diminuisce e il numero delle denunce di malattia professionale aumenta (in modo considerevole anche al femminile) – concentrandosi nelle patologie di natura osteo-articolari e muscolo-tendinee – le cause si concentrano nella (ancor troppo) scarsa attenzione alla valutazione dei rischi, a partire da quelli determinati da cattiva organizzazione del lavoro e da assenza di procedure di lavoro adeguate. Ragioni che si ritrovano anche alla base (come cause o concause) del crescente numero di tumori professionali che oggi sono divenuti la prima causa di morte per le lavoratrici e i lavoratori.
La complessità dell’analisi che oggi, quindi, il mondo del lavoro richiede, non consente più di potersi basare sulla legge dei grandi numeri, considerando, ad esempio, l’agricoltura a minor rischio per il più ridotto numero di incidenti in confronto al settore dell’industria, quando percentualmente (tenendo conto del numero complessivo di addetti dell’uno e dell’altro settore) si riscontra che l’agricoltura è in cima alla lista dei settori più colpiti dagli eventi infortunistici, gravi e mortali. Così come nei riguardi delle lavoratrici che, perseverando nel considerare l’indice di pericolosità di un lavoro, dal solo numero freddo dei casi di morte, si arriva ancora oggi a leggere (proprio nell’ultimo Rapporto INAIL) affermazioni che sostengono che le lavoratrici sono occupate complessivamente in comparti meno rischiosi degli uomini, non considerando che nei settori a maggior occupazione femminile, come i servizi, la sanità e l’assistenza e cura, la pericolosità non sta nel mero numero di decessi ad accadimento lavorativo, ma in altri fattori, quali ad esempio la cattiva o assente organizzazione del lavoro, la carenza strutturale di un numero di risorse umane adeguato alle esigenze, la scarsa disponibilità delle attrezzature specifiche e, pertanto, in una costante pericolosità determinata da una potenziale esposizione a rischio di danno lavorativo, che può sfociare in malattia professionale.
A fronte di questo scenario, si rileva come la stagione delle statistiche e della raccolta dati deve lasciare campo (non sostituire) all’attività di studio, sperimentazione e confronto, fra tutti gli attori preposti, mirando alla declinazione di indirizzi di intervento, di politiche della prevenzione e di sinergia comune e a valore aggiunto che tenga conto dei cambiamenti avvenuti nel sistema produttivo italiano, nel mondo del lavoro e nel tessuto economico e sociale.
E’ tempo di concretizzare l’azione delle strutture ed organismi collegiali, previsti dal dlgs 81/08 s.m., sia sul livello nazionale che territoriale-regionale, al fine di costruire una concreta rete di presidio, non solo delle fasi post-evento (per le quali l’INAIL è l’ente preposto), ma soprattutto nella quotidianità del lavoro, attraverso il dialogo e il confronto, ma anche la proposta e la realizzazione di interventi necessari, sia sul livello nazionale (facendo, al più presto, operare il Comitato per la valutazione e le politiche attive, ex art.5), che sul livello locale (facendo operare in modo sistematico i Comitati regionali di coordinamento, ex art.7), determinando in entrambe le situazioni, forme di collaborazione permanente con gli organismi paritetici, quali esempi concreti e strutturati, sul territorio, di pariteticità impegnata sui temi della tutela della salute e sicurezza sul lavoro.