A causare la morte di tanti operai non è stata solo l'inadeguetezza dei fabbricati...
Sono trascorse già alcune settimane dalla prima scossa di terremoto che ha messo in ginocchio vaste zone dell’Emilia. Ingenti i danni che hanno colpito le abitazioni civili, il patrimonio artistico e gli edifici pubblici, ma è con la scossa del 29 maggio scorso che il dramma del terremoto si è trasformato in tragedia, distruggendo una grande parte degli stabilimenti produttivi locali, cuore pulsante di quelle filiere d’eccellenza italiana nel mondo, facendo perdere la vita a diciassette persone; imprenditori e lavoratori già impegnati a ripartire, ma finiti drammaticamente sotto il crollo dei loro stessi capannoni.
Ad oggi si stimano 15000 posti di lavoro persi, a fronte di circa 3500 aziende inagibili, con un calcolo del danno di milioni di euro, tenuto conto non solo delle macchine rovinate e delle perdite dirette relative ai prodotti andati distrutti – primi fra tutti i materiali dell’industria biomedicale (nella quale le aziende emiliane rappresentavano il secondo produttore al mondo) – ma soprattutto guardando alle perdite economiche nei prossimi mesi, relative alla mancata produzione e vendita, in particolare, per l’industria alimentare (che esporta in tutto il mondo, dall’aceto balsamico al formaggio grana), ma non meno per quella dell’automobile di prestigio e della ceramica, senza contare i riflessi sull’indotto.
Ma in parallelo a tutto questo c’è la procura di Modena che indaga e che, per adesso, ha provveduto ad inviare una ventina di avvisi di garanzia per omicidio colposo. Atti dovuti, è stato precisato dal procuratore capo, ma atti che hanno immediatamente richiamato in primo piano l’attenzione sulle responsabilità di quanto successo in relazione ai crolli di tanti capannoni industriali.
Se di certo gli accertamenti diranno di chi sono le responsabilità della mancata messa a norma delle strutture, a partire dal 2003, anno nel quale le zone oggi terremotate sono state ricomprese nelle mappe delle zone sismiche, da parte di nessuno sta emergendo l’evidenza di un’altrettanta grave mancanza che c’è stata e che non di meno a contribuito alle tante morti verificatesi a causa della seconda forte scossa di terremoto.
A mancare, quale piaga del nostro modello di prevenzione, è stato il rispetto delle procedure di emergenza. La spinta al voler riprendere subito il lavoro, al voler ripartire da parte degli imprenditori così come dei lavoratori, avrebbe dovuto trovare il blocco rappresentato dal rispetto delle regole di intervento in caso di emergenza. E’ anche per questo che la normativa prevede che in ogni realtà lavorativa vengano incaricati degli addetti alle emergenze i quali, oltre ad essere formati in modo specifico, acquisiscono quella necessaria titolarità che gli consente di imporre regole di comportamento a tutti coloro che operano in azienda, compreso il datore di lavoro. Gli addetti alle emergenze, si legge nelle disposizioni normative, non sono chiamati solo ad operare in costanza di evento, ma in ogni condizione di pericolo. Nello stillicidio dello sciame sismico, dei giorni successivi alla prima scossa di terremoto, tale era la condizione; uno stato di pericolo permanente che doveva essere gestito secondo procedure puntuali e ferree che avrebbero dovuto governare l’eventuale rientro in azienda (anche quando disposto dalle autorità competenti) a partire dalla messa a disposizione di dispositivi di protezione individuale adeguati alla situazione.
A tale riguardo, non va dimenticato che la forza della prevenzione sta proprio nel predisporla e praticarla quando meno sembrerebbe che le condizioni lo richiedono. Monito quest’ultimo che ancora troppo spesso nelle nostre realtà lavorative viene, anche colposamente, trascurato. Le procedure sono il cardine fondamentale della gestione, non un mero aggravio sterile documentale, del quale se ne può anche fare a meno.